Noterelle critiche sulla cosiddetta 'obbligatorietà' delle vendite telematiche

Paternalismo, architettura delle scelte e standard di mercato nelle operazioni liquidatorie dell’esecuzione forzata.

Sommario:

1. Introduzione: paternalismo e standard di mercato nell’esecuzione forzata singolare. 
2. La tesi della ‘obbligatorietà’ delle vendite telematiche. 
3. Impostazione del problema: norme cogenti e norme dispositive nella regolamentazione del processo civile. 
4. La «clausola di salvezza» degli artt. 530 e 569 c.p.c. come norma elastica: implicazioni. 
5. Interessi pubblici e interessi privati nella disciplina delle vendite telematiche: la strumentalità degli obiettivi di efficienza e trasparenza agli interessi individuali dei creditori. 
6. La protezione degli interessi del debitore e il potere dei creditori di determinazione delle modalità di vendita. 
7. There’s no such thing as a free lunch: interessi privati dei creditori e interesse pubblico all’efficiente utilizzo delle risorse giurisdizionali

 

 

  1. – Introduzione: paternalismo e standard di mercato nell’esecuzione forzata singolare.

 

Che la vendita con «modalità telematiche» qual è delineata negli artt. 530 e 569 c.p.c., costituisca un regime ‘obbligatorio’ per la liquidazione dei beni nell’esecuzione forzata singolare; che la relativa disciplina si atteggi a paradigma ‘generale’ del procedimento liquidatorio dei beni pignorati e che le ‘deroghe’ consentite dalla legge all’applicazione di tale regime debbano perciò intendersi alla stregua di altrettante ‘eccezioni’ sono, a quanto pare, credenze piuttosto diffuse presso i giudici dell’esecuzione[1]. E la loro diffusione è tale «da indurre in chi consideri questo dato o la convinzione che si tratti di una verità tanto solare quanto indiscutibile o il sospetto che si abbia a che fare con un luogo comune, con tutto il corredo di opinabilità che è sempre prudente connettere ai luoghi comuni»[2].

Di questo stato di cose non sarebbe forse il caso di preoccuparsi in modo particolare se non fosse che l’inadeguatezza della tutela esecutiva del credito così com’è disegnata dalla legge e praticata correntemente dai nostri tribunali[3], associata all’incapacità di soddisfare le pressanti richieste di una più efficiente gestione delle esposizioni deteriorate dell’industria bancaria[4], rappresenta un problema troppo attuale e troppo serio perché il tema possa essere ignorato[5].

E se non fosse che la discussione sulle vendite attraverso canali telematici appare piuttosto emblematica di alcune inclinazioni tanto radicate quanto perniciose della legislazione e della prassi dell’esecuzione forzata che non possono essere trascurate.

Da un lato, la tendenza a regolare le operazioni liquidatorie del processo esecutivo, da cui dipende essenzialmente l’effettività della tutela esecutiva del credito[6], con discipline che introducono significative deviazioni rispetto agli standard delle transazioni di mercato. Ciò in antitesi con l’aspirazione tradizionalmente proclamata a regolare la vendita dei beni pignorati «senza formalità ingombranti, con quegli stessi criteri di pratica convenienza e di accorta prudenza a cui si ispirano nel trattare i migliori uomini di affari»[7] e soprattutto in contraddizione con l’obiettivo fondamentale di accrescere il rendimento del processo esecutivo nell’interesse dei debitori e dei creditori[8], allineando per quanto possibile i valori di realizzo dell’esecuzione forzata ai prezzi di mercato (arg. ex art. 568 c.p.c.): vale a dire ai prezzi conseguibili «tra un venditore e un acquirente consenzienti alle normali condizioni di mercato dopo un’adeguata promozione commerciale, laddove entrambe le parti abbiano agito con cognizione di causa, con prudenza e senza essere soggette a costrizioni»[9].

Dall’altro, un vistoso atteggiamento paternalistico nei confronti dei creditori e più in generale delle parti del processo esecutivo nella determinazione del quomodo exequendum; atteggiamento che costituisce per lo più il prodotto di una malintesa concezione del potere di direzione del processo spettante al giudice dell’esecuzione (484 c.p.c.) e che non sembra in verità avere alcuna plausibile giustificazione quando vengano in rilievo gli interessi disponibili delle parti (arg. ex art. 177, comma 3, n. 1, c.p.c.)[10].

Si allude, sotto il primo profilo, alle scelte assai discutibili compiute dal legislatore nel delineare il regime della pubblicità delle vendite[11] e, in particolare, alla singolare inversione dei criteri che intuitivamente dovrebbero governare la selezione delle diverse forme di comunicazione al mercato dell’offerta dei beni pignorati[12].

Basti pensare in proposito alla struttura dell’art. 490 c.p.c. il quale (a) s’incarica anzitutto di imporre ai creditori e ai debitori un misterioso «portale delle vendite pubbliche» gestito dal Ministero della giustizia secondo criteri burocratici anziché imprenditoriali[13] e la cui caratteristica saliente, nella sua attuale conformazione amministrativa, è quella di essere completamente inservibile all’attività di ricerca dei potenziali acquirenti[14], in contraddizione con gli obiettivi di apertura e trasparenza delle aste professati dalla legge[15]; (b) prescrive poi alle parti del processo esecutivo di avvalersi di ‘appositi’ siti internet, per lo più ignoti al largo pubblico dei consumatori e degli investitori, iscritti in un elenco tenuto dal Ministero della giustizia[16]; (c) assegna natura residuale e ‘facoltativa’ alla pubblicità sui quotidiani locali e nazionali di informazione[17]; (d) last but not least, relega tra le forme meramente eventuali la «pubblicità commerciale» e, quindi, anche i relativi siti internet specializzati, ossia i luoghi  (veri e propri supermarket on line) dove ormai si svolge in larghissima parte l’offerta dei venditori e l’attività di ricerca dei potenziali acquirenti, le cui potenzialità dovrebbero invece essere al centro del disegno legislativo di rafforzamento del marketing delle vendite pubbliche.

Si allude, poi, alla singolare previsione legislativa che autorizza il giudice a disporre la pubblicità «almeno quarantacinque giorni prima della scadenza del termine per la presentazione delle offerte» nelle vendite immobiliari o «almeno dieci giorni prima» nelle vendite mobiliari, laddove è intuitivo che la pubblicità una tantum sui quotidiani cartacei o una pubblicità on line protratta per un arco temporale di soli quarantacinque o dieci giorni (o trenta giorni per l’art. 107 l.f.), a ridosso dell’asta, è manifestamente incompatibile con i principali caratteri dell’attività di ricerca del consumatore e a maggior ragione del potenziale acquirente di un bene immobile[18]. Tutto ciò con la conseguenza – indesiderabile e ancora una volta in contrasto con gli obiettivi di competitività e trasparenza dei procedimenti liquidatori – di minare strutturalmente l’efficacia degli annunci pubblicitari[19]. E con il risultato inintenzionale ma assai deprecabile di riservare le vendite giudiziarie a una ristretta cerchia di persone, per lo più appartenenti alle categorie “family & friends”, così perpetuando l’idea che le operazioni esecutive restino il «campo preferito delle speculazioni e delle frodi»[20].

In riferimento al tasso di paternalismo presente nella disciplina della fase liquidatoria del processo esecutivo e, segnatamente, al tasso di paternalismo presente nella interpretazione corrente di quella disciplina basti registrare l’idea tradizionale e oramai per lo più implicita, che le decisioni riguardanti il quomodo exequendum, rientrino nella sfera esclusiva di apprezzamento del giudice dell’esecuzione cui compete una discrezionalità concepita in termini larghissimi, con una modesta incidenza delle determinazioni dei creditori e del debitore[21]. Si pensi, al riguardo, al potere del giudice, ormai peraltro devoluto al professionista delegato, di determinare il prezzo base del bene (ex artt. 532, comma 2, e 569, comma 3, c.p.c.), là dove alle parti sembrerebbe competere esclusivamente l’allegazione di «elementi» utili per tale determinazione in concorso con l’esperto (art. 568 c.p.c.); nonché al potere generale del giudice dell’esecuzione di stabilire il tempo e le modalità della vendita, sentite (soltanto) le eventuali «osservazioni» delle parti (artt. 530, comma 2, e 569, comma 2, c.p.c.)[22], da cui discendono per successiva specificazione il potere di selezione dei canali pubblicitari (artt. 530, comma 6, e 591-bis, comma 1), la scelta della vendita telematica in alternativa alla vendita analogica, il potere di scelta tra le diverse forme di vendita telematica, la selezione della piattaforma incaricata della gestione delle aste (artt. 530, comma 7, e 569, comma 4) e il potere di disporre l’amministrazione giudiziaria nell’ambito dell’esecuzione immobiliare (art. 591)[23].

Inclinazioni, queste del processo esecutivo, assai perniciose, si diceva, poiché ad esse si ricollega tradizionalmente un duplice effetto negativo: da un lato, quello di rendere assolutamente eccentriche, quando non anche patologicamente opache, le vendite giudiziarie rispetto ai mercati dei beni mobili e immobili che ne dovrebbero rappresentare l’essenziale punto di riferimento[24], con risultati normalmente assai negativi quanto ai tempi di perfezionamento delle vendite forzate, ai costi delle procedure e ai relativi valori di realizzo. Dall’altro, quello di deresponsabilizzare i creditori e i debitori, cioè i soggetti direttamente interessati ai tempi, ai costi e agli esiti dell’esecuzione forzata, accentrando nelle mani del giudice dell’esecuzione compiti riguardanti la definizione delle attività di commercializzazione dei beni pignorati che per loro natura esulano dal campo della risoluzione giurisdizionale dei conflitti tra privati e che sono per lo più completamente estranei al bagaglio di conoscenze ed esperienze dell’ufficio del giudice. 

Intendo perciò discostarmi dai luoghi comuni e in dissenso con le vedute correnti cercherò di dimostrare che il regime delle «vendite telematiche» si configura come un sistema di norme dispositive istituito dal legislatore in considerazione dei continui sviluppi tecnologici e del progressivo affermarsi del commercio elettronico nei mercati delle commodities, ma pur sempre disegnato nell’interesse dei creditori alla pronta liquidazione dei beni oggetto di espropriazione; sistema di default rules che il giudice dell’esecuzione deve (=ha l’obbligo di) applicare soltanto quando il creditore o, in caso di pluralità, tutti i creditori d’accordo tra loro non manifestino un diverso avviso, domandando che la vendita abbia luogo in forme alternative.

Affermerò quindi la nullità dell’ordinanza con la quale il giudice dell’esecuzione, pronunciandosi sulle modalità di liquidazione dei beni pignorati, esorbiti dai limiti della domanda di tutela esecutiva dei creditori (arg. ex artt. 112, 157, comma 2, e 177, comma 3, n. 1, c.p.c.) e imponga unilateralmente, nonostante il loro dissenso, che «il versamento della cauzione, la presentazione delle offerte, lo svolgimento della gara tra gli offerenti […] nonché il pagamento del prezzo siano effettuati con modalità telematiche».

Sosterrò, poi, che le condizioni poste dagli artt. 530 e 569 c.p.c. all’applicazione del regime delle vendite telematiche non solo non contraddicono ma confermano pienamente la natura dispositiva del sistema delle vendite telematiche; e concluderò che la loro funzione è, da una parte, quella di somministrare al giudice un criterio di risoluzione degli eventuali conflitti tra creditori che dovessero insorgere in ordine alle modalità dell’attività liquidatoria; dall’altra, quella di fissare un limite all’esercizio dei poteri di autonomia delle parti private, volto a impedire che le relative determinazioni si risolvano in un impiego dilatorio delle risorse giurisdizionali.

Al fondo della tesi che intendo sostenere vi è naturalmente un ordine di idee che per chiarezza è opportuno venga sin da subito esplicitato.

In primo luogo il convincimento che la costruzione di un assetto ottimale della disciplina dei procedimenti con funzione liquidatoria non possa assolutamente prescindere dall’osservazione dei mercati reali[25] in cui vengono scambiati i beni che formano oggetto dell’attività di liquidazione. Appare, infatti, logicamente contraddittorio rispetto allo scopo fondamentale della tutela esecutiva del credito – ossia conseguire dalla liquidazione dei beni del debitore prezzi di realizzo quanto più prossimi al loro market value – e, in ultima analisi, lesivo del principio di effettività della tutela giurisdizionale del creditore e dello stesso debitore, il ricorso a meccanismi di allocazione dei beni di natura non mercantile, inadatti per definizione a determinare esiti equivalenti a quelli ottenibili in un contesto di mercato. Da qui la tesi che l’attività del giudice e l’interpretazione della legge, per quanto possibile, devono essere orientati a riprodurne i meccanismi di funzionamento, minimizzando le più grossolane deviazioni da quel modello[26]. In questa prospettiva si deve ritenere che le regole enunciate dall’art. 107, comma 1, l.f., in quanto sono dirette a predisporre le condizioni indispensabili per una vendita il più possibile allineata ai «valori di mercato», rivestano la funzione di veri e propri canoni fondamentali dei procedimenti (e degli uffici) con finalità liquidatorie, suscettibili, quindi, di estesa generalizzazione e idonei a fungere da criteri di interpretazione anche delle disposizioni dettate per i procedimenti che si svolgono nell’esecuzione forzata singolare; onde qualsiasi scostamento da essi debba essere inteso restrittivamente e sottoposto ad un vaglio estremamente rigoroso[27].

In secondo luogo, il convincimento che una disciplina di tipo market-mimicking è resa desiderabile dal fatto che il mondo reale è un luogo di continui cambiamenti dove i gusti e i bisogni degli individui, l’offerta dei fattori di produzione e la tecnologia sono in permanente mutamento, ma «quali beni siano scarsi o quali cose siano beni e quanto essi siano scarsi o che valore abbiano sono precisamente [queste] le cose che la concorrenza deve scoprire»[28]. Che deve perciò guardarsi con estrema cautela sia all’aspirazione talora coltivata dagli apparati amministrativi di sostituirsi al processo concorrenziale nella invenzione di nuovi prodotti, di nuovi metodi di produzione e di nuovi mercati, sia alla pretesa del giudice dell’esecuzione di sostituirsi alle parti private nella selezione dei mezzi più idonei a realizzarne i fini individuali poiché, mutatis mutandis, è ben vero che le parti del processo esecutivo «sono fallibili e che il loro giudizio è talora fuorviato. E possiamo supporre che il loro apprezzamento […] sarebbe differente se [esse] fossero meglio [informate]. Come che sia, essendo la natura umana quella che è, non siamo minimamente in grado di sostituire alla superficialità della gente la saggezza di un’autorità infallibile […]. Non esistono valori assoluti, indipendenti dalla preferenze soggettive di uomini fallibili. I giudizi di valore sono l’esito di libere scelte dell’uomo. Essi riflettono tutte le insufficienze e le debolezze dei loro autori. Ma la sola alternativa […] è la determinazione dei valori tramite il giudizio di alcuni piccoli gruppi di uomini, non meno soggetti a errori e insuccessi che la maggioranza, a dispetto del fatto che essi vengano chiamati ‘autorità’ […]»[29].

Il convincimento, infine, che valga anche nel processo di esecuzione forzata la legge universale in economia per cui there’s not such thing as a free lunch: non esistono pasti gratis; c’è sempre qualcuno che deve pagare il conto[30].

Ma procediamo con ordine.

 

  1. – La tesi della ‘obbligatorietà’ delle vendite telematiche.

 

Che il sistema delle vendite telematiche si configuri come un regime «obbligatorio» di liquidazione dei beni nell’espropriazione forzata, si diceva, è un dato comunemente postulato senza che per la verità ne sia stata tentata, fino a questo momento, una particolare dimostrazione[31].

L’argomento avanzato per giustificare una simile conclusione si basa, infatti, essenzialmente sul confronto tra l’attuale formulazione dell’art. 569, comma 4, c.p.c., dedicato alle vendite immobiliari, e il testo originario della stessa disposizione: mentre nella sua precedente versione – si osserva – l’art. 569, comma 4, riconosceva al giudice la «facoltà» di stabilire che le vendite avvenissero con modalità telematiche («il giudice può stabilire che il versamento della cauzione, la presentazione delle offerte, lo svolgimento della gara tra gli offerenti […] siano effettuati con modalità telematiche»), il nuovo testo della norma[32], ricalcato sull’art. 530, comma 6, c.p.c. in tema di vendite forzate mobiliari, avrebbe invece l’effetto di introdurre una regola vincolante per il giudice («il giudice stabilisce [….] che [….]»), «solo mitigata», si aggiunge, «da una clausola di salvezza secondo cui a tale strumento non si deve ricorrere ove ciò sia “pregiudizievole per gli interessi dei creditori o per il sollecito svolgimento della procedura”»[33].

Sennonché, questa opinione sembra poggiare sopra un vistoso fraintendimento: quello secondo cui il mutamento della formula verbale (da “il giudice può stabilire” a “il giudice stabilisce”) realizzato dalla recente revisione dell’art. 569, comma 4, possa seriamente rivelare, in termini evolutivi, il passaggio da un regime ‘facoltativo’ ad un sistema ‘obbligatorio’ di aste telematiche nell’espropriazione immobiliare[34]. Che la contrapposizione tra queste due alternative sia frutto di un equivoco – alimentato anche dalla inaccurata terminologia della relazione al d.l. n. 59 del 2016[35] – lo attesta, infatti, la circostanza che le situazioni giuridiche ‘facoltative’ sono istituzionalmente estranee al corredo di prerogative del giudice dell’esecuzione così come sono estranee – si deve aggiungere – al corredo di prerogative di qualunque altro giudice.

E ciò per il rilievo, invero assai banale, che il giudice, diversamente dalle parti, non è titolare di situazioni giuridiche di libertà ma «è investito essenzialmente di doveri»[36] e che la legge non potrebbe mai autorizzare l’esercizio, per l’appunto, ‘facoltativo’, della giurisdizione[37], se non travisando completamente la natura funzionale dei poteri dell’autorità giudiziaria (art. 101 Cost.)[38]: è certo, infatti, che la legge piuttosto conferisce all’ufficio del giudice margini più o meno larghi di apprezzamento nell’interpretazione delle norme e nella valutazione dei fatti ma non gli assegna mai la titolarità di poteri ad esercizio libero. Ed è altresì certo che ogni qual volta la legge attribuisce al giudice un «potere» di provvedere contrassegnato da un coefficiente di discrezionalità più o meno ampio questo «potere» implica sempre e costantemente un correlativo «dovere» di provvedere non appena i presupposti previsti per l’applicazione della norma, che si tratta perciò di ricercare costantemente attraverso un’indagine di diritto positivo[39], si siano concretamente materializzati[40].

Se così è ne risulta allora, da un lato, l’inattendibilità della credenza secondo cui, prima dell’intervento riformatore sul testo dell’art. 569, comma 4, c.p.c. il giudice era investito della ‘facoltà’ di disporre la vendita immobiliare con modalità telematiche, là dove invece la legge chiaramente delineava un «dovere discrezionale» i cui triggers egli era tenuto ad accertare al momento di definire le modalità della vendita; dall’altro, soprattutto, che l’inserimento nell’art. 569, comma 4, c.p.c. di un nuovo «test di compatibilità», assente nella precedente versione della norma non può avere altro significato che quello di orientare l’esercizio di un dovere discrezionale già esistente, ché tale era pure prima della recente riforma il potere funzionale del giudice[41], precisando, tra le varie alternative astrattamente prospettabili, i presupposti a cui l’autorità giudiziaria deve per il futuro esclusivamente attenersi. In altri termini, una volta escluso che in passato il giudice godesse in senso proprio di una ‘facoltà’ di scelta in proposito, se un qualche effetto davvero innovativo dell’ordinamento, può accreditarsi alla novella dell’art. 569 c.p.c. questo sembra, in verità, non tanto consistere nella imposizione generalizzata del sistema delle vendite telematiche, come talora impropriamente si sostiene, quanto piuttosto quello di vincolare il giudice nella scelta tra modalità alternative di vendita sul fondamento di criteri legali predeterminati; criteri che appaiono perciò rivolti a orientare, uniformandola secondo i medesimi indici normativi già delineati nell’art. 530 c.p.c. per le vendite mobiliari, la discrezionalità del giudice dell’esecuzione, finora ancorata al canone implicito e generalissimo del miglior conseguimento dello scopo del processo esecutivo.

All’enfasi con cui si è affrettatamente celebrato da taluno il passaggio da un sistema ‘facoltativo’ a un sistema ‘obbligatorio’ della vendita forzata telematica immobiliare si può pertanto, in ultima analisi, replicare: (a) che oggi come ieri il giudice resta destinatario di una posizione giuridica di dovere («discrezionale»); (b) che come non poteva ammettersi, in passato, che il giudice dell’esecuzione esercitasse un imperscrutabile agere licere, insensibile allo scopo della ottimale liquidazione dei beni pignorati e svincolato dai principi che circondano l’esercizio del potere giurisdizionale, (c) così deve assumersi, oggi, che l’obbligo del giudice di utilizzare i canali di vendita telematici debba esplicarsi nei limiti in cui sia compatibile con le ragioni dei creditori e con la tempestiva definizione del processo; (d) che, proprio perché investito di un «dovere discrezionale» da esercitarsi compatibilmente con i diritti dei creditori e con la spedita conduzione del procedimento liquidatorio, nell’evenienza di un contrasto tra le parti interessate sulle modalità della vendita, il giudice dovrà sempre motivare, così come prescrivono in linea generale gli artt. 134 e 487 c.p.c., sia la decisione di ricorrere al sistema della vendita telematica, sia la decisione di non ricorrervi[42].

 

  1. – Impostazione del problema: norme cogenti e norme dispositive nella regolamentazione del processo civile.

 

Riconosciuta senz’altro l’esistenza di un obbligo del giudice di disporre la vendita con modalità telematiche e precisato altresì che il vincolo funzionale di comportamento così stabilito non ha carattere assoluto ma è condizionato ai presupposti indicati dagli artt. 530 e 569 c.p.c., onde abbiamo parlato di «dovere discrezionale», resta tuttavia da accertare quale sia la posizione degli altri soggetti coinvolti nel processo esecutivo: poiché, infatti, l’obbligo posto dalla legge deve necessariamente esser preordinato a soddisfare un qualche interesse, a questo riguardo si tratta essenzialmente di verificare se esso sia dettato al servizio del buon funzionamento del processo esecutivo (efficienza, trasparenza, etc.) o se, al contrario, considerate «la strumentalità del processo civile nei confronti del diritto sostanziale e la situazione fondamentale di libertà e non di obbligo in cui trovano le parti che agiscono nel processo quale proiezione della disponibilità della situazione sostanziale dedotta in giudizio» [43], il vincolo posto in capo al giudice sia correlato ad una situazione giuridica di vantaggio di coloro che agiscono (creditori) e si difendono (debitori) nel processo esecutivo. Nel primo caso si sarà effettivamente dimostrato il carattere ‘obbligatorio’ della disciplina delle vendite telematiche anche per le parti e quindi, in definitiva, la natura inderogabile di quel particolare regime normativo; nel secondo dovrà invece concludersi che la disciplina delle vendite mediante canali telematici, mentre senz’altro obbliga il giudice al pari di qualsiasi altra norma giuridica, è però derogabile per volontà delle parti e allora si tratterà di accertare se sia derogabile per scelta dei creditori o per scelta del debitore o per volontà comune di tutti i soggetti che, da lato attivo e dal lato passivo, partecipano all’esecuzione.

Né questa impostazione deve meravigliare. Se, infatti, l’ideologia tradizionale del codice di procedura civile indubbiamente accredita per lo più l’orientamento secondo cui il processo «non può essere considerato come affare privato, le cui sorti possano essere abbandonate all’interesse individuale dei contendenti» e se è indubbio altresì che anche «nei processi su controversie di diritto privato entra in giuoco, appena si invoca l'intervento del giudice, quell’interesse eminentemente pubblico che è la retta e sollecita applicazione della legge al caso concreto», per cui «non deve esser dunque permesso ai privati di invocare la giustizia per farla servire a scopi contrastanti con essa, né di ingombrare i tribunali colle loro schermaglie dilatorie alle quali il giudice sia costretto ad assistere inerte, fino a che piaccia al contendenti di farle durare»[44]; se tutto ciò è vero, si diceva, «è certo», però, «che all’andamento del processo e al suo risultato nel caso concreto sono principalmente interessate le parti che aspirano traverso l’attuazione della legge a un bene della vita» e che per questo motivo la legge processuale ha spesso riguardo alla loro volontà: «vale a dire che le norme processuali non sempre sono assolute o cogenti, ma sono talora dispositive; sia perché talora la legge può avere avuto di mira proprio l’interesse individuale, cosi che la deroga a tali norme appaia come la rinuncia a un beneficio; sia perché la legge può talora fare assegnamento sulla conoscenza che le parti hanno delle circostanze concrete della lite per rimettere ad esse il regolamento di qualche punto del rapporto processuale»[45].

Se non può, dunque, configurarsi «un processo convenzionale», perché «il giudice e le parti non possono governare a capriccio il processo», occorre nondimeno ammettere che «in casi singoli le parti sono libere di non attenersi a una norma processuale, sia accordandosi espressamente o tacitamente sia omettendo di rilevarne l’inosservanza». E bisogna altresì convenire che se «le parti abbiano o no questa libertà deve risultare o dalle parole espresse della legge o dallo scopo della singola norma»[46]. Con l’avvertenza che, tuttavia, non «è sufficiente e sicuro criterio attenersi alla formulazione stilistica del precetto legislativo, la quale se talora può essere un indizio, non sempre può dare un affidamento sicuro sul valore della disposizione» e che il più delle volte è quindi necessario «risalire al fondamento del precetto, alla ratio iuris; se essa ha per scopo immediato la tutela d’un interesse generale […] si è in presenza d’una norma cogente perché l’interesse generale non può essere sacrificato dall’arbitrio del singolo, se invece si tratta di norme ispirate agli interessi individuali delle parti […] allora siamo sul terreno del diritto dispositivo»[47].

Se questa è nelle sue linee di vertice la cornice teorica dei rapporti tra regolamentazione del processo e autonomia delle parti all’interno della quale l’interprete deve necessariamente muoversi per accertare la natura cogente o dispositiva delle norme processuali, una volta preso atto che (a) l’enunciato normativo con cui si prescrive l’impiego delle aste telematiche nell’esecuzione singolare non è rivestito di una forma grammaticale imperativa, (b) che la forma lessicale dichiarativa (‘stabilisce’) è di per sé ambigua e dotata di una modesta forza prescrittiva e, comunque, risulta incapace di attestare in modo sufficientemente univoco il valore, cogente o dispositivo, della relativa disciplina; e inoltre (c) che, in mancanza di una sanzione processuale espressa, difetta il più sicuro indice della cogenza del comando legislativo[48], un primo punto fermo della nostra analisi può esser così tracciato: la natura imperativa del regime delle vendite telematiche rispetto alle parti presuppone, come si diceva inizialmente, l’esistenza di un interesse superindividuale alla liquidazione forzata dei beni con le particolari modalità delineate dagli artt. 530, comma 6, e 569, comma 4, c.p.c.; detto altrimenti, presuppone che nella forma telematica possa ravvisarsi un requisito indispensabile per la vendita dei beni oggetto di espropriazione forzata, disposto per la soddisfazione di esigenze di ordine generale ulteriori e diverse da quelle muovono la domanda di tutela giurisdizionale dei privati[49].

 

  1. – La «clausola di salvezza» degli artt. 530 e 569 c.p.c. come norma elastica: implicazioni.

 

Svolte queste premesse e chiarita la posizione giuridica di cui è fatto titolare il giudice dell’esecuzione nell’ambito della disciplina dettata dagli artt. 530 e 569 c.p.c. è giunto, dunque, il momento di indagare la portata delle direttive alle quali quest’ultimo deve attenersi al fine di controllare se il modello delle vendite telematiche costituisca davvero una tecnica cogente di conformazione delle operazioni liquidatorie nell’esecuzione forzata singolare o se piuttosto quel tipo particolare di soluzione liquidatoria non debba ricondursi all’area del jus dispositivum.

A tale riguardo, è bene muovere dal rilievo che la «clausola di salvezza» contenuta negli artt. 530, comma 6, e 569, comma 4, c.p.c. rivela già prima facie alcuni caratteri del tutto peculiari che la rendono eccentrica, tanto se riguardata nel quadro della disciplina generale del processo quanto se esaminata nel contesto della disciplina particolare dell’esecuzione forzata. E così deve anzitutto osservarsi che diversamente dalla maggior parte delle proposizioni di analogo tenore contenute nel codice di procedura civile[50] quella formulata negli artt. 530, comma 6, e 569, comma 4, c.p.c. non si atteggia affatto come una norma rigida in cui possa ravvisarsi la descrizione di una fattispecie precisamente determinata una volta per tutte e fissata direttamente dalla legge in tutti i suoi elementi[51].

La formula di queste disposizioni assume piuttosto la fisionomia delle norme elastiche, ossia di quelle particolari strutture normative che «lasciano spazio all’apprezzamento del giudice in quanto poggiano su stati di fatto indeterminati o oscillanti che […] diversamente si modellano e si colorano secondo le circostanze»[52].

Ora, poiché il tratto comune delle norme elastiche consiste in ciò che il relativo stereotipo – cioè l’insieme di casi paradigmatici che vi sono ricompresi – non risulta precostituito dalla legge perché le circostanze concrete da cui dipende l’applicazione di una certa disciplina sono ritenute incostanti e imprevedibili ex ante[53]; e considerato altresì che attraverso di esse si ha una intenzionale «sospensione del giudizio da parte del legislatore» e la sua «remissione ad una competenza diversa» con «un esplicito trasferimento al giudice del potere di procedere ad un autonomo apprezzamento della situazione di fatto»[54], deve senz’altro respingersi la tesi riduttiva secondo cui il potere di ‘esenzione’ del giudice dell’esecuzione dovrebbe essere orientato esclusivamente dalle caratteristiche o dal valore dei beni che formano oggetto della vendita forzata[55].

A questa opinione può obiettarsi, infatti, che il valore o le caratteristiche dei beni non possono affatto esaurire l’intero spettro di significati della condizione di compatibilità formulata negli artt. 530 e 569 c.p.c. e che qualora il legislatore avesse realmente inteso generalizzare il regime delle vendite telematiche, esentando le parti nelle ipotesi di beni di modesto valore o di beni particolarmente connotati, ciò avrebbe dovuto fare prescegliendo una tecnica di formulazione normativa completamente diversa: ad es. individuando una soglia fissa di esenzione sulla falsariga dell’art. 490, comma 2, c.p.c., escludendo i beni di valore infimo (art. 107 l.f.) o, ancora, in ossequio ad un elementare canone di costanza terminologica, avvalendosi della formula dell’art. 560, comma 4, c.p.c. dettata in tema di custodia, la quale prende espressamente in considerazione la particolare natura dei beni oggetto di espropriazione forzata («il giudice […] salvo che per la particolare natura [dei beni] ritenga che la [sostituzione del debitore nella custodia] non abbia alcuna utilità […]»).

Sotto un diverso profilo si deve peraltro osservare che, al di fuori dei casi in cui il sistema della vendita telematica si riveli addirittura antieconomico per il costo del servizio di gestione della procedura telematica[56], il valore del bene non può affatto costituire per il giudice un soddisfacente criterio di orientamento, atteso che per comune dato di esperienza gli scambi on line effettuati sulle piattaforme commerciali riguardano, nei mercati reali, principalmente commodities di basso valore.

Sarebbe perciò decisamente incongruo rispetto ai consueti meccanismi di funzionamento del commercio elettronico che il giudice disapplicasse il sistema delle offerte telematiche proprio quando il comportamento di acquisto dei consumatori e il successo delle piattaforme commerciali ne additano un’effettiva utilità.

Appurato che le caratteristiche dei beni o il loro valore non possono esaurire la portata delle «condizioni d’uso» fissate dagli artt. 530, comma 6, e 569, comma 4, c.p.c., se non a costo di amputarne arbitrariamente l’ampiezza, può allora affermarsi che il senso di quelle norme deve essere necessariamente rintracciato su un piano completamente diverso da quello suggerito dall’opinione corrente, attraverso un’indagine che deve necessariamente far capo, come si è anticipato, alla natura degli interessi che la disciplina delle vendite telematiche è chiamata a promuovere nel contesto dell’esecuzione forzata e, quindi, in definitiva, alle esigenze che essa è destinata a soddisfare.

 

  1. – Interessi pubblici e interessi privati nella disciplina delle vendite telematiche: la strumentalità degli obiettivi di efficienza e trasparenza agli interessi individuali dei creditori.

 

A tale proposito occorre allora notare che il test di compatibilità disegnato dalla legge presenta un aspetto ulteriore fin qui rimasto nell’ombra e che non ci pare esser stato sufficientemente esplorato nelle indagini dedicate al tema di cui stiamo discorrendo. Si allude alla circostanza che i criteri di giudizio deputati a governare l’applicazione del regime delle vendite telematiche sono aggregati sotto due standard tra loro distinti e alternativi: l’uno, com’è ormai noto, preclude la liquidazione attraverso canali telematici quando possa risultare pregiudizievole per «gli interessi dei creditori»; l’altro, invece, prescrive al giudice di valutare gli eventuali ostacoli creati dalle forme telematiche al «sollecito svolgimento della procedura».

Ora, volendo approfondire un poco il contenuto delle direttive impartite al giudice con queste formule, appare evidente che la considerazione esplicita degli interessi dei creditori contenuta nella disposizione legislativa apre essenzialmente due ordini di questioni.

Anzitutto richiede di individuare le ragioni che hanno indotto il legislatore ad assumere esplicitamente come oggetto di tutela della disciplina la sfera giuridica di una parte privata anziché, come auspicato da qualcuno, subordinarne tout court la protezione alla realizzazione di questo o quell’altro presunto interesse pubblico (alla competitività, alla trasparenza, alla regolarità delle procedure di vendita, ad un efficiente e uniforme svolgimento della funzione giudiziaria, alle esigenze statistiche del Ministero della giustizia, etc.)[57].

In secondo luogo, la peculiare conformazione della clausola legislativa impone di precisare per quale motivo essa identifichi come oggetto di salvaguardia gli interessi dei creditori, senza considerare gli interessi del debitore o, altrimenti detto, perché al giudice sia imposto di evitare che le proprie decisioni producano effetti pregiudizievoli sugli interessi di una parte del processo senza curarsi degli interessi dell’altra (v. ad es. l’art. 591-bis, comma 2, c.p.c.).

A nostro modo di vedere la risposta ad entrambi questi interrogativi non può che essere univoca: intanto, la legge subordina l’applicazione del regime delle vendite telematiche ad un giudizio di compatibilità con l’interesse dei creditori, in quanto senz’altro antepone questa particolare serie di interessi privati a qualsiasi altra esigenza pure ipoteticamente rilevante nell’ambito della disciplina delle aste telematiche. E intanto questo condizionamento del regime processuale agli interessi dei creditori può operare in quanto, dal punto di vista del legislatore, le esigenze generali di competitività, trasparenza, regolarità, semplificazione delle procedure di vendita, di efficiente e uniforme svolgimento della funzione giudiziaria, etc. o (a)  non sono soddisfatte in re ipsa da quel modello o (b) non sono affatto comprese tra le finalità rilevanti della disciplina oppure (c) pur essendo contemplate, in tutto o in parte, tra i ‘motivi’ della disciplina non sono però considerate come esigenze imperative in grado di prevalere sulle ragioni dei creditori. Se il legislatore avesse seriamente ravvisato nell’impiego di quella particolare modalità di commercializzazione dei beni uno strumento indispensabile per soddisfare interessi indisponibili di ordine generale – si può notare – questi ultimi avrebbero dovuto senza dubbio imporsi sull’interesse individuale dei creditori[58]. Così, ad esempio, se il legislatore avesse ravvisato nelle aste telematiche uno strumento di per sé idoneo ad ampliare sistematicamente la partecipazione del pubblico alle vendite pubbliche; così se il legislatore avesse creduto che il valore delle regolarità delle aste in ipotesi salvaguardato dalle modalità telematiche «è più importante della tutela dell’interesse del singolo creditore nella specifica procedura, e ciò perché l’immagine di trasparenza di tale sistema è funzionale alla miglior tutela del credito in generale (se funziona il mercato delle vendite pubbliche, è più efficiente la tutela del credito)»[59]. E la stessa valutazione può compiersi anche in riferimento ad altri motivi più o meno commendevoli che la recente letteratura ha di volta in volta voluto ricollegare all’impiego del sistema delle vendite telematiche.

Sennonché il legislatore – saggiamente aggiungiamo noi – non ha affatto ritenuto necessario per la tutela esecutiva del credito o per il raggiungimento dello scopo dell’esecuzione forzata che le operazioni liquidatorie si svolgessero secondo modalità telematiche e ciò per la ragione decisiva che, in assenza di mercati sufficientemente consolidati, non vi era alcuna sicurezza da parte dello stesso legislatore storico circa la capacità delle forme di vendita telematica di fornire un apporto apprezzabile al miglioramento delle performance delle vendite pubbliche e, quindi, di rafforzare l’effettività della tutela dei diritti dei creditori (art. 24 Cost.) che in ultima analisi costituisce l’obiettivo primario dell’esecuzione forzata[60]. Onde il bisogno avvertito dal legislatore di chiarire esplicitamente che l’impiego del sistema delle vendite telematiche non può avvenire contro gli interessi dei creditori; di qui la ‘delega’ aperta conferita al giudice affinché valutasse, di volta in volta, l’incidenza di quel modello sulla tutela del credito.

E il fatto che l’ordinamento nel suo complesso consideri il paradigma delle vendite telematiche alla stregua di un modello soltanto eventuale stabilito nell’interesse dei privati piuttosto che una forma essenziale per realizzare astratti obiettivi di ‘efficienza’ e ‘regolarità’ dei procedimenti di esecuzione singolare, sganciati da qualsiasi riferimento ai mercati reali, discende inequivocabilmente da una pluralità di riscontri.

In primo luogo, dall’osservazione che i principi generali che governano l’attività liquidatoria delle procedure d’insolvenza non contemplano alcun vincolo cogente in ordine alla scelta del modello della vendita telematica, lasciando agli organi della procedura muniti di prerogative liquidatorie – curatore e comitato dei creditori – il compito di valutare discrezionalmente la soluzione di volta in volta più rispondente all’interesse della collettività dei creditori[61]. Ciò a dispetto del fatto che anche le procedure di vendita delineate dall’art. 107, comma 1, l.f., sono esplicitamente ispirate all’obiettivo di assicurare «la massima informazione e partecipazione degli interessati». E nonostante che proprio al fine di assicurare «la massima informazione e partecipazione degli interessati» il legislatore abbia espressamente imposto, come per le procedure di esecuzione individuale, la pubblicazione delle vendite fallimentari sul portale delle vendite pubbliche, senza però dedicare alcun cenno al modello delle aste telematiche. Sicché, escluso che le esigenze di competitività, trasparenza, efficienza, sicurezza o altre variamene ravvisabili valgano in misura diversa per le vendite fallimentari e per quelle dell’esecuzione individuale oppure che i creditori possano ricevere una tutela differenziata, sotto il profilo dell’efficienza, trasparenza e sicurezza delle aste, a seconda del tipo di procedura, la conclusione che può trarsi dal confronto tra la disciplina dell’esecuzione individuale e quella dell’esecuzione collettiva è questa: così come il modello delle aste telematiche non è coessenziale alla regolamentazione delle vendite nelle procedure d’insolvenza, pur essendo senz’altro utilizzabile per la commercializzazione dell’attivo fallimentare, quando, nella valutazione degli organi della procedura, consente di massimizzare gli interessi della collettività dei creditori, così non può essere considerato coessenziale all’attività di commercializzazione dei beni nelle procedure esecutive singolari se non quando sia idoneo a soddisfare, in concreto, gli interessi dei creditori che hanno promosso l’esecuzione forzata[62].

Il rilievo del regime delle vendite telematiche nelle procedure di insolvenza non può peraltro, a nostro avviso, neppure essere indirettamente recuperato invocando l’eventualità che nel programma di liquidazione elaborato dal curatore venga stabilito che le vendite siano «effettuate dal giudice delegato secondo le disposizioni del codice di procedura civile» ai sensi dell’art. 107, comma 2, l.f.. In disparte la natura residuale (i.e. non generale) e volontaria (i.e. non cogente) dell’opzione normativa delineata dall’art. 107, comma 2, l.f. e nonostante il diverso convincimento espresso da qualche autore, deve, infatti, ritenersi quantomeno dubbio che il regime delle vendite telematiche sia effettivamente compatibile con le vendite fallimentari del giudice delegato.

Si noti anzitutto che in un sistema plasmato sulla strutturale separazione tra le funzioni di vigilanza e le funzioni gestorie, nel quale al curatore competono in via esclusiva l’amministrazione del patrimonio fallimentare e «tutte» le operazioni della procedura (artt. 31 l.f.), il ricorso al giudice per la vendita dell’attivo fallimentare, in realtà, non può, che rivestire carattere del tutto eccezionale in quanto implica il ‘trasferimento’ di attribuzioni liquidatorie, istituzionalmente riservate all’ufficio del curatore (che per l’attività di liquidazione viene specificamente remunerato), in favore di un organo cui la legge ha conferito prerogative di vigilanza sull’andamento generale della procedura e di controllo puntuale su singoli atti.

Si osservi, altresì, che la natura eccezionale del ‘trasferimento’ di competenze dal curatore al giudice delegato, contemplato dall’art. 107, comma 2, l.f., appare vieppiù marcata all’indomani delle riforme dell’esecuzione individuale che hanno imposto di esternalizzare le operazioni di vendita ad un ufficio specializzato, rendendo anche nell’ambiente del processo esecutivo, del tutto residuale la vendita ad opera del giudice (artt. 534-bis e 591-bis c.p.c.).

Considerato che, al pari di qualsiasi altra scelta discrezionale, espressione di un dovere dell’ufficio del curatore, anche la scelta di affidare le vendite fallimentari al giudice delegato deve ritenersi subordinata ad un vincolo di ottimizzazione dei risultati dell’amministrazione del patrimonio fallimentare ed escluso che il curatore possa abdicare alle proprie funzioni per indolenza, il ricorso al giudice delegato dovrebbe ammettersi solo in presenza di particolari esigenze che possono essere soddisfatte esclusivamente attraverso l’intervento del giudice e nelle forme tipicizzate dell’attività giurisdizionale. Esigenze particolari (ad es. il pericolo di interferenze illecite nelle procedure di vendita) tali per cui, come segnalato dal testo dell’art. 107, comma 2, l.f., si rende necessaria un’attività personale e diretta del giudice delegato nel suo ruolo di vigilanza sulla procedura, in deroga all’assetto ordinario delle competenze liquidatorie prefigurato in via generale dagli artt. 31 e 107, comma 1, l.f..

Se tutto ciò è vero e se si riconosce che il presupposto essenziale del ‘trasferimento’ della funzione liquidatoria in favore del giudice delegato consiste nella necessità di una vigilanza diretta del giudice sulle operazioni di vendita ne dovrebbe però risultare anche l’incompatibilità sia della disciplina della delega delle operazioni di vendita dettata dal codice di procedura civile sia soprattutto l’esternalizzazione di segmenti di attività normalmente considerati ‘pericolosi’ (deposito delle offerte, espletamento della gara, etc.) in favore di soggetti (i.e. i gestori delle piattaforme telematiche) la cui disciplina di fonte esclusivamente regolamentare, soprattutto in mancanza di un adeguato apparato sanzionatorio, non offre alcuna particolare garanzia di affidabilità.    

La posizione meramente accessoria ed eventuale del modello delle vendite telematiche nel sistema delle vendite coattive appare peraltro confermata, in una visione più complessiva dell’ordinamento, dal rilievo che né le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento (art. 14-novies della l. n. 3 del 2012) né il regime del pegno possessorio (art. 1, comma 7, lett. a), del D.L. 59/2016 conv. con modificazioni nella l. n. 119 del 2016) - quest’ultima figura addirittura introdotta con lo stesso decreto legge che ha modificato l’art. 569 c.p.c. -, pur ispirati ai principi generali dell’art. 107, comma 1, l.f., annoverano quel modello tra le forme ‘obbligatorie’ dell’attività liquidatoria[63]. Così come deve senz’altro escludersi, dato il rinvio puntuale operato alle disposizioni degli artt. 534 ss. e 569, comma 3, che il modello della vendita telematica possa automaticamente estendersi alla vendita dei beni mobili e immobili nei processi di divisione ereditaria e di scioglimento della comunione (artt. 787 e 788 c.p.c.). 

In una prospettiva più radicale la preminenza delle ragioni dei creditori nella disciplina delle vendite telematiche si giustifica poi con il rilievo che quel modello non appare idoneo a soddisfare con un apprezzabile grado di certezza alcuno dei presunti interessi pubblici che in ipotesi dovrebbe garantire secondo l’orientamento più diffuso. Sicché, anche ammesso che una parte di tali esigenze generali fosse effettivamente contemplata tra i ‘motivi’ ispiratori dell’intervento di riforma degli artt. 530 e 569 c.p.c., resta il fatto che la gerarchia degli interessi rilevanti disegnata dalla legge testimonia in modo difficilmente contestabile della loro natura esclusivamente strumentale[64]. Così può dirsi in riferimento al tanto declamato valore della ‘trasparenza’ delle aste (da intendere per noi nel senso dell’informazione indirizzata al mercato ex art. 107, comma 1, l.f.), il quale può essere realizzato soltanto attraverso l’implementazione di adeguate strategie di pubblicità commerciale in grado di veicolare efficacemente l’offerta ad una platea più possibile vasta e numerosa di potenziali acquirenti[65]. Così può ripetersi in riferimento all’obiettivo della ‘competitività’ delle procedure di vendita (da intendere nel senso della massima apertura ai soggetti potenzialmente interessati all’acquisto ex art. 107, comma 1, l.f.), (a) atteso che l’utilizzo delle piattaforme telematiche costituisce normalmente un’opzione aggiuntiva di acquisto accordata dalle imprese ai consumatori per eliminare le barriere spaziali e facilitare transazioni a distanza per «prodotti molto standardizzati e sui quali non sussiste incertezza relativa alle caratteristiche qualitative»[66] [67]; opzione di per sé appropriata, quindi, esclusivamente nelle evenienze in cui per la distanza geografica, la natura del prodotto o per i valori in gioco l’attività di ricerca dei potenziali acquirenti non presupponga un preventivo esame del bene (come invece avviene normalmente ad es. nel caso di aziende, immobili o beni mobili non standard) ([68]); (b) e considerato, altresì, che la partecipazione di terzi potenziali acquirenti alla procedura per la vendita dei beni pignorati è anch’essa quasi esclusivamente influenzata, come accade nei mercati reali, dall’efficacia dei canali di pubblicità commerciale nonché dalla serietà e qualità complessiva del servizio di vendita (rapidità dei tempi di trasferimento del bene, capacità informativa della relazione di stima, garanzie per vizi, etc.).

Completamente estraneo alla disciplina legislativa della vendita telematica appare, infine, a dispetto dell’opinione talora affiorata in letteratura, anche il proposito di sterilizzare i rischi di turbativa delle aste. Da un lato, infatti, e sotto il profilo pratico, un siffatto interesse non può essere realisticamente soddisfatto dalle procedure telematiche in tutti i casi (ad es. le vendite immobiliari) nei quali i potenziali acquirenti hanno bisogno di svolgere una accurata due diligence sul bene prima di presentare un’offerta e devono quindi necessariamente prendere contatto diretto con la procedura e con i suoi attori. Dall’altro, il rischio di interferenze illecite nelle operazioni di vendita costituisce un’evenienza patologica – inidonea come tale a fondare un regime valido per la generalità dei casi – che il giudice dell’esecuzione deve fronteggiare procedendo personalmente alle operazioni di vendita (arg. ex art. 591-bis, comma 2, c.p.c.), quando ne ricorrano effettivamente gli estremi. Tanto più che le caratteristiche di segretezza e anonimato offerte dai gestori delle piattaforme telematiche, come si è anticipato, non sono in alcun modo presidiate da uno statuto dell’attività dei gestori delle piattaforme che possa adeguatamente garantire, anche attraverso un autonomo apparato di sanzioni penali o amministrative, la serietà dei relativi servizi e, comparativamente, assicurarne una maggiore affidabilità rispetto al modello di vendita tradizionale, sicché, anche sotto tale profilo, non può in alcun modo giustificarsi un’aprioristica fiducia nelle procedure telematiche[69].

Inoltre, - si deve rilevare - se la funzione essenziale del modello della vendita telematica fosse davvero quella di garantire la segretezza delle offerte e l’anonimato delle gare tale modalità non offrirebbe in realtà alcun significativo vantaggio supplementare rispetto alle forme della vendita tradizionale e finirebbe per presentarsi come una mera alternativa alla forma dell’offerta “in busta chiusa”, che è anch’essa certamente segreta (ex art. 571, comma 4, c.p.c.), e alla modalità della gara “tra presenti” che è anch’essa suscettibile di svolgersi, a scelta degli offerenti, in forme anonime e spersonalizzate mediante la nomina di sostituti professionali (ex art. 579, commi 2 e 3, c.p.c.). Senza dire, infine, che se il compito assegnato alle vendite telematiche dagli artt. 530 e 569 c.p.c. fosse da ravvisare nell’obiettivo di minimizzare il rischio di turbative dovrebbe senz’altro negarsi la legittimità della vendita telematica nella forma denominata “sincrona mista” così come disciplinata dalla fonte regolamentare, dato che in questo caso, la concreta possibilità di un contatto tra i partecipanti alla gara, immanente al modello, non sarebbe idonea ad escludere i rischi di inquinamento delle aste organizzate secondo lo schema tradizionale. Mentre, d’altro canto, proprio l’opzione regolamentare con la quale si è ammessa, nel silenzio della legge, una forma di partecipazione ‘mista’ alle aste immobiliari costituisce la migliore riprova della flessibilità con la quale deve intendersi la disciplina legislativa di questa materia.

 

  1. – La protezione degli interessi del debitore e il potere dei creditori di determinazione delle modalità di vendita.

 

Respinta la tesi che la regolamentazione legislativa delle vendite telematiche sia dominata da interessi ultraindividuali inerenti all’amministrazione della giustizia antagonistici rispetto alle ragioni dei creditori e così affermata la preminenza dell’interesse delle parti private, potrebbe peraltro sostenersi che il relativo regime sia implicitamente disposto dalla legge nell’interesse del debitore esecutato al miglior realizzo dei beni pignorati e che la tutela della posizione del debitore incontri un limite soltanto esterno nel pericolo di danno per i creditori[70] o nell’eventuale ostacolo ad una rapida definizione del processo esecutivo. Ne deriverebbe così, da un lato, la facoltà per il debitore di disporre secondo la propria convenienza del regime delle vendite telematiche, scegliendo se ricorrervi e con quali forme; dall’altro, per i creditori il potere di contrastare la scelta del debitore, con osservazioni all’udienza per l’autorizzazione della vendita (artt. 530 e 569) o con l’opposizione avverso l’ordinanza che accolga la scelta del debitore (art. 617).

Due ordini di inconvenienti tra loro strettamente connessi sconsigliano però questa conclusione. In primo luogo, riconoscere al debitore una simile facoltà avrebbe il difetto di consegnare nelle mani della parte inadempiente il primato dell’iniziativa nella definizione della strategia liquidatoria e implicherebbe, quindi, un rovesciamento radicale del rapporto tra creditore e debitore in antitesi con il carattere essenzialmente ‘unilaterale’ della vendita forzata e con la posizione di soggezione in cui viene a trovarsi il debitore sottoposto a responsabilità esecutiva[71].  

In secondo luogo, se si riflette sulla circostanza che il processo esecutivo tende a risolvere una lite da pretesa insoddisfatta[72] dovuta essenzialmente alla resistenza opposta dal debitore alla liquidazione volontaria del proprio patrimonio per estinguere il debito verso il creditore[73]; e se si considera, altresì, che per effetto del pignoramento il debitore non perde affatto la facoltà di disposizione del bene pignorato ma è soltanto inibito nella possibilità disperdere la garanzia del creditore, si deve constatare che in qualunque momento il debitore, cessando la propria resistenza, può procedere personalmente alla liquidazione volontaria del bene per estinguere l’obbligazione secondo le modalità e con le forme per lui più convenienti; così come può domandare la liquidazione controllata del proprio patrimonio, affidandola ad un terzo indipendente sotto il controllo del tribunale e dei creditori (artt. 14-ter l. n. 3 del 2012). Sicché riconoscere al debitore il potere processuale di determinare le modalità di liquidazione del bene nell’ambito del processo esecutivo, nonostante la mancata attivazione delle iniziative che direttamente potrebbe prendere in quanto titolare del diritto, significherebbe concedergli un privilegio eccessivo nei rapporti con i creditori, disincentivandone la cooperazione nella ricerca di potenziali compratori e propiziandone condotte potenzialmente ostruzionistiche.

A simili inconvenienti si sottrae invece l’attribuzione di un potere di determinazione delle modalità di liquidazione in favore dei creditori. Premesso, infatti, che il potere sostanziale di disposizione del bene, anche in pendenza del processo esecutivo, compete al debitore e non invece al creditore e rilevato altresì che quest’ultimo, proprio per la mancanza di un potere diretto di disposizione, è costretto a promuovere la vendita forzata, invocando l’attività surrogatoria dell’autorità giudiziaria, non dovrebbe esservi alcun ostacolo a riconoscere al creditore (o ai creditori d’accordo tra loro in caso di concorso) il potere processuale di domandare, con efficacia vincolante per il giudice dell’esecuzione, l’adozione di questa o quell’altra misura esecutiva e l’impiego di questa o quell’altra modalità liquidatoria, nei limiti delle alternative stabilite dalla legge e dei principi generali espressi dall’art. 107, comma 1, l.f.[74].

Che la conformazione normativa del regime delle vendite telematiche rifletta esclusivamente l’interesse dei creditori alla migliore e più spedita collocazione dei beni pignorati senza che venga in alcun rilievo l’interesse del debitore risponde, infatti, alle tendenze più profonde e recenti del sistema, indirizzate, in questa come in altre occasioni, al rafforzamento della posizione dei creditori in ordine alle scelte di natura liquidatoria e al contestuale ridimensionamento della voce dei debitori; tendenze cui si accompagna, al pari di quanto avvenuto nelle procedure di insolvenza, il progressivo esautoramento del giudice dall’esercizio di compiti di gestione[75].

L’accentuazione dei poteri dei creditori nella fase liquidatoria dell’esecuzione forzata, sia nei confronti del debitore sia nei confronti delle prerogative gestorie del giudice dell’esecuzione, può, a nostro avviso, complessivamente riscontrarsi: (a) nel diritto dei creditori di chiedere l’impiego dei canali di pubblicità commerciale e nel diritto di selezionare i singoli strumenti di pubblicità ricavabile dall’art. 490, comma 3, c.p.c.; (b) nel diritto di domandare l’assegnazione del bene del debitore il cui esercizio può essere anche funzionale alla rivendita a terzi del bene assegnato (art. 572, 573, 590-bis e 591, ult. comma)[76]. Soprattutto deve però cogliersi (c) nel diritto dei creditori di conseguire l’amministrazione giudiziaria degli immobili (art. 591 c.p.c.), in caso di insuccesso del primo esperimento di vendita e così di accentrare sotto la propria responsabilità l’attività liquidatoria e, quindi, l’intero complesso di iniziative di promozione commerciale dirette al reperimento di potenziali acquirenti[77]. Poteri, questi, che, appunto testimoniano, da una parte, il progressivo coinvolgimento dei creditori nella commercializzazione dei beni pignorati, dall’altra, l’idoneità delle determinazioni di parte a vincolare il contenuto del provvedimento del giudice, nel segno di un indirizzo di politica legislativa che, pur incidendo sull’equilibrio dei poteri processuali delle parti, può ammettersi, senza urtare il nucleo intangibile del diritto di difesa del debitore, in considerazione del fatto che la sua tutela giurisdizionale non ne risulta così mortificata ma soltanto spostata sul terreno della determinazione del prezzo di vendita (art. 568 c.p.c.) e dei rimedi esperibili contro la sua eventuale ingiustizia (art. 586 c.p.c.)[78].

 

  1.  There’s no such thing as a free lunch: interessi privati dei creditori e interesse pubblico all’efficiente utilizzo delle risorse giurisdizionali

 

Nelle pagine che precedono abbiamo registrato la preferenza accordata alle ragioni dei creditori nel disegno legislativo delle vendite telematiche, quale manifestazione del diritto dei creditori di ricevere dal giudice dell’esecuzione la prestazione di mezzi esecutivi idonei a conseguire l’ottimale realizzo dei beni pignorati. Si è nel contempo escluso che alla base di quel regime possano identificarsi astratte esigenze imperative di efficienza o di regolarità delle procedure di vendita in grado di prevalere sugli interessi dei creditori. Da un lato, infatti, in mancanza di mercati reali che attestino l‘effettiva superiorità dei canali telematici rispetto ai canali fisici al di fuori di specifici contesti e particolari categorie di beni standard, la legge ha chiaramente imposto un test di compatibilità dei canali telematici sia con gli interessi individuali dei creditori sia con l’interesse pubblico alla rapida definizione delle procedure di vendita, da compiersi necessariamente in concreto; test che, com’è evidente, non avrebbe alcun senso là dove il legislatore avesse già formulato una volta per tutte e in astratto un giudizio di superiore efficienza delle vendite telematiche. Dall’altro, in mancanza di una specifica disciplina di rango primario e soprattutto di un appropriato regime, anche sanzionatorio, che garantisca l’affidabilità dei gestori delle piattaforme per il tramite delle quali si svolgono le vendite, deve radicalmente escludersi che la presunta sicurezza delle procedure telematiche possa essere assunta a fondamento del valore cogente di quel sistema. Sono, inoltre, stati indicati i motivi che inducono a ritenere che l’interesse del debitore ad evitare pregiudizi dall’espropriazione forzata deve ritenersi sufficientemente salvaguardato sia dalla possibilità di cooperare attivamente con i creditori alla ricerca di potenziali compratori sia dalla disciplina processuale sulla formazione del prezzo della vendita forzata.

I rilievi che siamo venuti svolgendo consentono, a questo punto, di condurre a esiti più avanzati l’indagine attorno all’effettiva portata degli artt. 530, comma 6, e 569, comma 4, c.p.c. e, in particolare, di approfondire la riflessione sul significato della cosiddetta «clausola di salvezza» con la quale si delimita l’obbligo del giudice dell’esecuzione di disporre la vendita in forma telematica, vietando l’impiego di tale canale quando «sia pregiudizievole per gli interessi dei creditori o per il sollecito svolgimento della procedura».

Abbiamo già anticipato che la formulazione elastica della clausola legislativa impedisce, anzitutto sotto un profilo logico, di ravvisare in quelle ipotesi altrettante ‘deroghe’ di natura eccezionale o ‘esenzioni’ delle quali possa predicarsi il carattere tassativo. Mentre sotto l’aspetto grammaticale abbiamo notato la sostanziale fungibilità che può normalmente riscontrarsi, tanto nel linguaggio ordinario quanto nel linguaggio legislativo, tra le proposizioni introdotte dalla locuzione congiuntiva “salvo che” e gli enunciati condizionali introdotti da locuzioni del tipo “se”, “purché”, “a patto che”, “a condizione che”, “ove”, “qualora”, “quando”, etc.. Ne abbiamo ricavato che il compito della «clausola di salvezza» consiste propriamente nell’assoggettare la commercializzazione dei beni pignorati attraverso canali telematici alla duplice condizione che siano salvaguardati «gli interessi dei creditori» e nel contempo sia garantito il «sollecito svolgimento della procedura» di vendita.

Ora, poiché l’interesse individuale dei creditori al soddisfacimento del credito azionato nel processo esecutivo può esser pregiudicato da qualsiasi atto o fatto suscettibile di provocare alternativamente (a) una riduzione dei valori di realizzo o (b) l’aumento dei costi dell’esecuzione o (c) la dilatazione dei tempi di conclusione della vendita, può affermarsi che l’obbligo del giudice di ordinare la liquidazione attraverso canali telematici deve intendersi condizionato, là dove emergano contestazioni tra i creditori, alla prognosi – da effettuarsi sulla base di dati di mercato per singole specie di beni – che tale mezzo esecutivo non sia destinato ad incidere negativamente sul rendimento dell’esecuzione forzata (i.e. sul livello dei prezzi, sull’entità dei costi o sui tempi di alienazione del bene) che si otterrebbe comparativamente attraverso i canali fisici[79].

Escluso che il sistema delle vendite telematiche possa essere impiegato quando risulti dannoso per i creditori nei termini anzidetti occorre, peraltro, domandarsi se il legislatore abbia invece inteso prescrivere che la liquidazione dei beni pignorati si svolga comunque in forma telematica anche quando risulti inutile, ossia quando un giudizio prognostico sui risultati conseguibili mediante questo sistema di commercializzazione, formulato alla stregua dei dati di mercato, attesti un livello di performance sostanzialmente omogeneo a quello dei canali tradizionali.

A questo interrogativo deve darsi a nostro avviso risposta decisamente negativa. Da una parte, infatti, soltanto un legislatore capriccioso potrebbe imporre alle parti del processo l’anticipazione di spese superflue ostacolandone l’accesso alla giustizia (artt. 3 e 24 Cost.); dall’altra, l’accollo di costi processuali innecessari, di ammontare svincolato da qualsiasi parametro legale (art. 23 Cost.), per servizi che non presentano un’attitudine strumentale al conseguimento del bene della vita tutelato dal processo (arg. ex art. 8 D.P.R. 115/2002)[80] finirebbe per risolversi in un sussidio pubblico per i gestori delle piattaforme telematiche e si risolverebbe pur sempre in una forma di pregiudizio per i creditori, accrescendone l’esposizione complessiva di incerto recupero verso un debitore insolvente e immobilizzando risorse che potrebbero ricevere allocazioni alternative più profittevoli e meno rischiose[81]

Ne discende allora, secondo la nostra visuale, che al canale delle vendite telematiche è legittimo far ricorso, in ultima analisi, soltanto quando non sia inutile per i creditori ovvero, sciogliendo la doppia negazione, esclusivamente quando sia utile, possa cioè arrecare un vantaggio in termini di rendimento dell’esecuzione forzata, ai soggetti attivi dell’azione esecutiva. Dal che può dirsi conseguita la dimostrazione della tesi che abbiamo inizialmente avanzato in ordine alla natura dispositiva delle regole dettate dagli artt. 530, comma 6, e 569, comma 4, c.p.c.: il trattarsi, cioè, di una disciplina che ha di mira l’interesse individuale dei creditori e la cui deroga si configura come la «rinuncia a un beneficio» accordato dalla legge per la realizzazione esclusiva del loro interesse[82], in armonia con i principi e la regolamentazione delle procedure liquidatorie (art. 107, comma 1, l.f., art. 14-novies l. n. 3 del 2012 e art. 1, comma 7, lett. a), del d.l. n. 59 del 2016 conv. con modificazioni nella l. n. 119 del 2016) e in conformità con l’obiettivo di regolare le vendite forzate «con quegli stessi criteri di pratica convenienza e di accorta prudenza a cui si ispirano nel trattare i migliori uomini di affari»[83].

Onde la conferma che all’obbligo del giudice sancito negli artt. 530 e 569 c.p.c. corrisponde una situazione giuridica attiva del creditore: il diritto di domandare che la vendita forzata si svolga con le modalità ritenute più convenienti e adeguate allo scopo di massimizzare il rendimento dell’esecuzione; nonché la facoltà dei creditori concorrenti, d’accordo tra loro, di vincolare la pronuncia del giudice sul punto (art. 117, comma 3, n. 1, c.p.c.).

Se si condivide questa conclusione ne deriva inoltre che al creditore o ai creditori d’accordo tra loro deve ritenersi riservata non soltanto la decisione in ordine all’alternativa tra canale fisico e modalità telematiche ma anche, la scelta tra le diverse forme di vendita telematica, nonché, forse, la selezione del gestore e della piattaforma in grado di fornire il migliore servizio al minor costo. Riserva di competenza, questa, che deve opportunamente essere riconosciuta al creditore, anziché al giudice, ancora una volta confidando «da un lato, nella sua attitudine, determinata dal suo interesse, a procurarsi le notizie necessarie per fare la scelta; dall’altro, nella convenienza di far corrispondere libertà di iniziativa all’onere e al rischio della anticipazione delle spese» ([84]) e che più in generale si ricollega all’esigenza di far corrispondere la libertà di iniziativa del creditore ai costi e ai rischi immanenti alla vendita forzata provocati dall’inerzia del debitore.

D’altro  canto, considerato che il processo non è un affare soltanto privato e che le parti non possono impegnare a loro piacimento le risorse della giurisdizione statale si comprende che neppure in questo ambito può avere valore incondizionato la volontà dei creditori, le cui determinazioni devono essere, quindi, sottoposte al controllo del giudice per impedire che la scelta del canale di vendita si traduca in un ingiustificato intralcio alla progressione del procedimento verso il suo naturale epilogo.

Definita in termini di autonomia la posizione dei creditori in ordine alla selezione delle modalità della vendita dei beni – e segnalato che questa posizione di autonomia è potenzialmente generalizzabile nell’esecuzione singolare all’intero programma di liquidazione ben oltre il ristretto tema in esame –, l’intervento del giudice deve, dunque, considerarsi limitato, da un lato, a risolvere autoritativamente le questioni che possano insorgere tra i creditori quando abbiano diverse prospettive in ordine alle strategie liquidatorie; dall’altro, a colmare le eventuali lacune lasciate irrisolte dai creditori nella formulazione delle loro richieste (ad es. riguardo allo specifico sistema di vendita telematica da utilizzare o all’indicazione del gestore da incaricare per la vendita) e a impedire che il potere di autonomia si traduca in espedienti meramente dilatori. Cosicché, in definitiva, sul giudice incomberà l’obbligo di disporre l’applicazione del regime delle vendite telematiche (a) quando tutti i creditori esplicitamente richiedono o implicitamente prestano il loro consenso all’impiego del relativo sistema oppure (b) quando pur emergendo un contrasto tra i creditori vi è un creditore che accetta di farsi carico in esclusiva dei costi della vendita telematica in forma mista, accollandosi il rischio della inutilità della procedura telematica; (c) quando, in presenza di un contrasto tra i creditori, sia positivamente accertata dal giudice l’idoneità del canale telematico ad offrire un contributo utile alla realizzazione dello scopo liquidatorio del processo esecutivo. Contributo utile che potrà però individuarsi soltanto quando, sulla base degli elementi offerti dagli interessati, sia ex ante prospettabile, con un grado sufficiente di probabilità, la capacità del canale telematico di generare risultati comparativamente superiori, in termini di prezzi di aggiudicazione, tempi di realizzo e costi, rispetto al sistema di vendita tradizionale.

 

 

[1] Così A. CRIVELLI, Le vendite telematiche, 2017, in www.cespec.ue, G. FANTICINI, Le opposizioni nella vendita telematica, In Executivis, Speciale vendite telematiche, 2018, 99 ss. S. LEUZZI, Vendite telematiche e procedure concorsuali, ivi, 88 ss., S. ROSSETTI, La pubblicità e la vendita telematica, ivi, 6 ss. (id. La pubblicità e le vendite telematiche, in A. Cardino-S. Romeo (a cura di), Processo di Esecuzione, Profili sostanziali e processuali, Milano, 2018, 1604), R. D’ALONZO, La vendita immobiliare telematica, ivi, 76 ss., G. BORRELLA-S. PITINARI, Questioni in tema di vendite telematiche, 2018, www.ilcaso.it, A. AULETTA, Vendite telematiche: appunti per un primo (non incoraggiante bilancio), www.inexecutivis.it. Così anche E. ASTUNI, La fase della vendita, in AA.VV., La nuova espropriazione forzata, diretto da C. Delle Donne Bologna, 2017, 555, e A. SOLDI, Manuale dell’esecuzione forzata, Padova, 2017, 1336. Aderisce a questa prospettiva in letteratura anche E. FABIANI, La vendita forzata telematica, in Quaderni della Riv. dir. civ., Padova, 2018, 95 ss. Di «rendere obbligatoria, salvo che [fosse] pregiudizievole per gli interessi dei creditori o per il sollecito svolgimento della procedura, la vendita dei beni immobili con modalità telematiche […]» discorreva l’art. 1-bis, lett. d), del disegno di legge delega per la riforma del processo civile, approvato alla Camera con atto C.2953 del 10-3-2016, successivamente trasfuso nell’art. 4, comma 1, lett. e), del  d.l. n. 59 del 2016 conv. con modificazioni dalla l. n. 119 del 2016. L’idea dell’obbligatorietà delle vendite telematiche immobiliari si trova altresì espressa nella relazione illustrativa al d.l. n. 59 del 2016 dove si legge che, «al fine di migliorare il tasso di efficienza e di trasparenza del mercato delle vendite forzate, si prevede che le vendite dei beni immobili pignorati abbiano luogo obbligatoriamente con modalità telematiche […]».

[2] Così in tutt’altro campo dell’esperienza giuridica, P. SPADA, La tipicità delle società, Padova, 1974, 1 ss.

[3] Da ultimo, S. GIACOMELLI, T. ORLANDO e G. RODANO, Le procedure esecutive immobiliari: il funzionamento e gli effetti delle recenti riforme, Questioni di economia e finanza, Banca d’Italia, luglio 2018. L’inadeguatezza delle procedure liquidatorie è chiaramente attestata dalle incessanti riforme che negli ultimi anni hanno interessato la materia dell’esecuzione forzata, collettiva e singolare, nella direzione, tra l’altro, del ridimensionamento delle competenze liquidatorie del giudice delegato nelle procedure d’insolvenza (2006 e 2012) e del rafforzamento dello strumento della delega delle operazioni di vendita nel processo esecutivo (2015), fino alla completa degiurisdizionalizzazione dell’attività esecutiva attuata rivitalizzando forme di escussione in autotutela delle garanzie (art. 4 d.lgs. n. 170 del 2004) e il patto marciano, dapprima con l’art. 11-quaterdecies d.l. 30 settembre 2015, n. 203 conv. con modificazioni dalla l. 2 dicembre 2005, ulteriormente modificato dall’art. 1 della l. n. 44 del 2015, e poi con gli artt. 48-bis e 120-quinquiesdecies del TUB (2016); temi sui quali si possono consultare AA.VV. I nuovi marciani, Torino, 2017 e I contratti di garanzia finanziaria a cura di E. GABRIELLI, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da Cicu-Messineo, Milano, 2018. Da ultimo, è intervenuta la proposta di direttiva europea del Parlamento europeo e del Consiglio “on credit servicers, credit purchasers and the recovery of collateral”, del 14 marzo 2018, la quale contempla, tra le altre misure, una accelerated extrajudicial collateral enforcement procedure (AECE), preordinata ad aiutare le banche «to better manage NPLs by increasing the efficiency of debt recovery procedure».

[4] Uno stimolo decisivo nella direzione di una migliore gestione delle attività liquidatorie dell’esecuzione forzata singolare, soprattutto attraverso la valorizzazione degli istituti dell’assegnazione e dell’amministrazione giudiziaria degli immobili, potrà peraltro derivare nel prossimo futuro dai nuovi orientamenti di vigilanza della Banca d’Italia rivolti all’allentamento dei vincoli prudenziali previsti per l’investimento in immobili delle banche con lo scopo di favorire «una gestione attiva delle garanzie immobiliari che assistono i crediti e l’efficienza e la rapidità del processo di recupero degli NPLs», anche attraverso l’acquisizione – diretta da parte delle banche o attraverso società appositamente costituite – degli immobili posti a garanzia dei crediti (Disposizioni di vigilanza, documento di consultazione, 16 marzo 2018, in vigore dal 20 ottobre 2018).

[5] Tanto serio da richiamare di recente l’attenzione di un quotidiano di informazione economica con il titolo in prima pagina NPL, Italia spiazzata dai tribunali, IlSole24ore, 15 marzo 2018, ove si segnalano le ripercussioni sul sistema economico del documento di vigilanza prudenziale dell’Autorità di supervisione bancaria europea intitolato Addendum to the ECB Guidance to banks on non-performing loans: supervisory expectations for prudential provisioning of non-performing exposures, marzo 2018, dettato peraltro in linea di continuità con le indicazioni contenute nelle Guidance to banks on non-performing loans, marzo 2017.

[6] Già S. PUGLIATTI, Esecuzione forzata e diritto sostanziale, Milano, 1935, ora in Scritti giuridici, Milano, 2008, Vol. I (1927-1936), 923.

[7] Così già la Relazione al codice di procedura civile, al §15 intitolato Le forme processuali: semplicità e modernità del procedimento, ove si  affermava che «anche il processo esecutivo si avvicinerà alla vita, quando la vendita o l'assegnazione del beni espropriati potranno avvenire senza formalità ingombranti, con quegli stessi criteri di pratica convenienza e di accorta prudenza a cui si ispirano nel trattare i migliori uomini di affari. Tutto il processo deve diventare più umano, nel senso che esso appaia al popolo non più come una specie di cerimonia cabalistica nella quale solo gli iniziati possono farsi intendere, ma come un accessibile rifugio messo dallo Stato a disposizione di tutti coloro che credono nella giustizia e che per farsi ascoltare non hanno altri titoli che il buon senso e la buona fede».

[8] Per il rilievo che il risultato dell’esecuzione diverge normalmente dal risultato dell’adempimento «in quanto profitta di meno al creditore e in quanto costa di più al debitore» e che tuttavia la «politica del processo esecutivo deve tendere naturalmente ad aumentarne il profitto per il creditore e a diminuirne il costo per il debitore», F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile: processo di esecuzione, I, 1929, 41, il quale aggiungeva che «la esperienza insegna come la vendita forzata avvenga assai difficilmente a condizioni pari con la vendita volontaria per quanto riguarda il profitto del venditore. Quanto più urgente è il bisogno di vendere del proprietario di una cosa tanto meno egli ricava dal negozio […]. Se il lettore riflette che la vendita forzata è tipicamente una vendita che non può non essere fatta, si renderà conto di questa inevitabile causa del suo minore rendimento. Contro questo pericolo deve naturalmente lottare la  politica del processo esecutivo […] ma conviene rassegnarsi ad ammettere che, nonostante ogni avvedimento, la conversione in denaro dei beni in sede di espropriazione forzata renderà  sempre meno che in sede di alienazione (veramente) volontaria».

[9] Secondo la definizione degli International Valuation Standards, contenuti nel Red Book prodotto dalla Royal Institution of Chartered Surveyors (RICS), recepita dall’art. 4, par. 1, n. 76), Regolamento (UE) N. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento, ove si trova delineato il concetto di ‘market value’ come importo stimato «al quale un’attività o passività dovrebbe essere scambiata alla data della valutazione in un’operazione svolta tra un venditore e un acquirente consenzienti alle normali condizioni di mercato dopo un’adeguata promozione commerciale, laddove entrambe le parti abbiano agito con cognizione di causa, con prudenza e senza essere soggette a costrizioni» (cfr. anche le Linee guida per le banche sui crediti deteriorati, BCE, marzo 2017).

[10] E’ sintomatico di questo atteggiamento del giudice dell’esecuzione quanto ad es. scrivono G. BORRELLA-S. PITINARI in Questioni in tema di vendite telematiche, cit.: «E’ infatti bensì vero che l’art. 569 c.p.c. impone di sentire i [creditori] in ordine ai modi e ai tempi della vendita, ma si tratta all’evidenza di un parere consultivo non vincolante, in quanto il codice riserva al G.E. – a differenza di quanto accade nel fallimento, ove le scelte strategiche vengono rimesse al Curatore, unitamente al C.D.C. – una funzione dirigista, nel senso che è al giudice dell’esecuzione che il codice ancora riserva il potere di adottare le decisioni fondamentali all’interno del processo esecutivo, che poi – a parte le parentesi cognitive – si sostanziano nell’adozione degli atti esecutivi strictu sensu, ossia gli atti conclusivi di ciascun subprocedimento di cui si compone il processo esecutivo».  

[11] Sull’importanza della pubblicità nell’espropriazione forzata già F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile: processo di esecuzione, Padova, II, 1931, 264, il quale notava che: «Lo scambio di cosa contro denaro esige […] in primo luogo l’incontro tra i due soggetti dello scambio; ma questo incontro non è quasi mai fortuito; anche nella vendita volontaria uno dei due, precisamente quello che prende l’iniziativa dello scambio, ricerca l’altro; in questa ricerca giova anzitutto la mediazione e, in secondo luogo, sempre meglio, nelle varie sue forme la pubblicità». Lo svolgimento di «un’adeguata promozione commerciale» costituisce peraltro elemento costitutivo dello stesso concetto di “valore di mercato” adottato dalle fonti dell’Unione europea, il quale consiste, appunto, nell’importo stimato al quale un bene può essere scambiato «after proper marketing» (art. 4, par. 1, n. 76), del Regolamento (UE) N. 575/2013, cit., e Linee guida per le banche sui crediti deteriorati, BCE, marzo 2017). Definizione legislativa dalla quale emerge chiaramente che senza un’adeguata promozione commerciale non esiste, non può esistere, valore di mercato’. A quasi un secolo di distanza dalle notazione di F. Carnellutti, può affermarsi con sicurezza che la pubblicità costituisce una leva cruciale del processo di commercializzazione di qualsiasi tipologia di bene e, quindi, anche nel marketing dei beni venduti nell’ambito dell’esecuzione individuale e collettiva. Alcuni dei più influenti economisti del XX secolo hanno dedicato i loro studi alla rilevanza della pubblicità per il funzionamento dell’economia di mercato, (oltre a J.K. GALBRAITH The affluent society, NY, 1958) N. KALDOR, The economic aspects of advertising, The review of economic studies, 1950, e soprattutto, G. STIGLER, The economics of information, Journal of political economy,1961 (ove si trova l’affermazione che “advertising is, among other things, a method of providing potential buyers with knowledge of the identity of the sellers. It is clearly an immensely powerful instrument for the elimination of ignorance – comparable in force to the use of the book instead of the oral discourse to communicate knowledge). P. NELSON, Information and consumer behaviour, in Journal of political economy, 1970, id. Advertising as information, ivi, 1974, M.R. DARBY-E. KARNY, Free competition and the optimal amount of fraud, Journal of Law and Economics, 1973, 67-88, J. STIGLIZ, Principi di microeconomia, Efficienza e mercati imperfetti, Milano, 2005, 332-334.

[12] La grave inadeguatezza dell’architettura della pubblicità ‘legale’ era peraltro già denunciata sotto il vecchio codice da F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, cit., 267, il quale, dopo aver registrato la «scarsissima diffusione del foglio degli annunzi giudiziari», osservava acutamente che «certo nessun privato ricorrerebbe a mezzi di pubblicità così fatti», auspicando che la riforma del processo esecutivo si orientasse verso «forme più efficaci e soprattutto [per l’impiego] della pubblicità comune il cui costo [avrebbe eventualmente potuto] essere moderato imponendo agli imprenditori di essa un dovere processuale».

[13] Nato con l’ambizione del Ministero della giustizia di creare una ‘vetrina unica delle vendite pubbliche’, il portale è, allo stato, soltanto una ‘vetrina in allestimento’. Se il compito principale di una ‘vetrina’ pubblicitaria è quello di rendere facilmente visibili e identificabili al pubblico le informazioni essenziali in ordine all’offerta di un certo bene e alle sue caratteristiche, “riducendo drasticamente i costi di ricerca” dei potenziali acquirenti (così G. STIGLER e P. NELSON, cit.), il portale delle vendite pubbliche risulta, quindi, assolutamente disfunzionale. La vistosa mancanza di adeguati criteri di ricerca, visualizzazione e localizzazione dei beni offerti in vendita, unitamente all’assenza di investimenti in pubblicità volti a creare una sufficiente rinomanza del servizio offerto dal Ministero, pregiudica, infatti, significativamente l’idoneità del portale a realizzare le finalità pubblicitarie per le quali è stato istituito dal legislatore, gettando gravissime ombre sulla stessa legittimità del suo disegno complessivo, così come concretamente attuato dal Ministero ai sensi dell’art. 161-quater disp. att. c.p.c., sia sotto il profilo della manifesta violazione del principio di trasparenza delle aste, sia per i costi ingiustificati che vengono così imposti alle parti del processo per un’attività pubblicitaria, allo stato, chiaramente inutile. In una più generale prospettiva di politica legislativa l’artificiale creazione di un unico punto di incontro tra venditori e potenziali acquirenti dedicato alle vendite giudiziarie, cioè la creazione di un vero e proprio market place delle vendite pubbliche, amministrato in forma centralizzata dal Ministero della giustizia rappresenta, per usare una celebre formula di Jeremy Bentham, un vero e proprio «nonsense upon stilts» in quanto: (a) ignora la storia del processo esecutivo in punto di inadeguatezza dei sistemi di pubblicità legale; (b) trascura di considerare la natura imprenditoriale dei servizi pubblicitari e di marketing; (c) produce l’effetto indesiderabile di isolare il mercato delle vendite giudiziarie, accrescendo, invece di ridurre, nel pubblico la percezione negativa che le vendite pubbliche costituiscano un fenomeno ‘singolare’ non assimilabile agli scambi che ordinariamente si svolgono sugli altri mercati dei beni e dei servizi; (d) richiede elevati investimenti on going e soprattutto dovrebbe fondarsi su una gestione, appunto, imprenditoriale che gli apparati amministrativi dello Stato difficilmente sono in grado di assicurare sia per i vincoli di finanza pubblica che ne astringono l’azione sia per il difetto della necessaria expertise; (e) si pone in evidente controtendenza rispetto all’evoluzione delle forme organizzative dei mercati, come dimostra l’esempio delle borse valori, le quali hanno subìto, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, un processo di privatizzazione, almeno nell’attuale fase storica irreversibile, per l’incapacità degli Stati di garantirne l’efficiente funzionamento e il rapido adattamento all’evoluzione tecnologica. Un indice affidabile dell’illusorietà del portale delle vendite pubbliche (e della sua evoluzione in un “mercato unitario telematico delle vendite” v. art. 7, comma 9, lett. b, della L. 155/2017) è costituito dal confronto tra gli investimenti in pubblicità effettuati da qualsiasi impresa di non piccole dimensioni e la modestia degli investimenti di lancio e funzionamento stanziati nel bilancio dello Stato con l’art. 13, ult. comma, del d.l. n. 83 del 2015, ove è stabilito che per «gli interventi informatici connessi alla realizzazione del portale delle vendite pubbliche di cui al comma 1, è autorizzata la spesa di euro 900.000 per l'anno 2015 e, per quelli concernenti la manutenzione e il funzionamento del medesimo portale, di euro 200.000 annui a decorrere dall'anno 2016». Risulta emblematico, inoltre, quanto si trova scritto a proposito del “mercato unitario telematico nazionale delle vendite”  nella Lettera al Ministro di accompagnamento degli schemi di decreti attuativi della legge delega 19 ottobre 2017, n.155, ove si riporta che non è stato possibile «al momento, dare attuazione all’innovativa previsione di cui all’art. 7, comma 9, lett. b), della legge delega (relativa al sistema dei c.d. commons), stanti le riserve avanzate dai rappresentanti del Ministero dell’economia e finanze circa la necessità di una copertura finanziaria attualmente non prevista».

[14] Uno dei principali problemi dei mercati a concorrenza imperfetta messi in luce dalla teoria economica nel XX secolo riguarda le difficoltà e i costi in cui incorrono i partecipanti al mercato nella scoperta dei prodotti resi disponibili dalle imprese, dei loro prezzi, delle relative qualità e dei luoghi dove reperirli; nel linguaggio degli economisti le attività attraverso le quale si raccolgono questo tipo di informazioni prendono il nome di  “processo di ricerca” (search process). Poiché la ricerca “è un attività economica costosa” e siccome “il cercare termina prima che tutta l’informazione rilevante sia ottenuta” anche se esistono migliori offerte perché “è semplicemente troppo costoso trovarle” (J. STIGLIZ, op. cit.; G. STIGLER, op. cit. e P. NELSON, op. cit.), i mercati hanno sviluppato due principali strategie per rimediare al problema dell’informazione limitata: (a) gli intermediari dell’informazione (i grandi magazzini, le agenzie immobiliari, i supermaket, i siti di comparazione dei prezzi, etc.) i quali guadagnano la loro reputazione grazie alla capacità di scegliere e selezionare per conto dei consumatori la merce da vendere; (a) la pubblicità commerciale che svolge l’importante funzione di mettere in contatto imprese e consumatori, informando i potenziali acquirenti dei prodotti offerti, dei prezzi e dei luoghi dove trovarli. La regolamentazione legislativa della pubblicità nelle procedure liquidatorie, collettive e singolari, svolge o dovrebbe svolgere quindi la funzione essenziale di facilitare l’attività di ricerca dei potenziali acquirenti, mettendo in contatto venditori e compratori. Se il disegno del meccanismo pubblicitario congegnato dal legislatore non è in grado di adempiere la funzione che il sistema economico gli assegna l’offerta dei beni pignorati troverà più difficilmente dei destinatari e non potrà che rivolgersi a favore di una platea limitata di insiders muniti di qualche privilegio informativo con effetti negativi sui valori di realizzo e sui tempi di liquidazione.

[15] Risulta in un certo senso paradossale, quindi, la formulazione dell’art. 107, comma 1, l.f. laddove si indica che al fine di assicurare la «massima informazione e partecipazione degli interessati» il curatore «effettua la pubblicità [sul portale delle vendite pubbliche] prevista dall’art. 490, prima comma, del codice di procedura civile almeno trenta giorni prima dell’inizio della procedura competitiva». Deve peraltro osservarsi incidentalmente che questa disposizione impone al giudice delegato e anche al giudice dell’esecuzione, se si ritiene che nell’espropriazione forzata il portale delle vendite pubbliche condivida le medesime finalità, di vagliare con rigore la legittimità degli atti amministrativi che hanno dichiarato la funzionalità del portale ed eventualmente di disapplicarli (ex art. 5, l. n. 2248/1865, all. E), attesa la manifesta inidoneità a realizzare, almeno in questa fase e fintanto che non verranno apportate sostanziali modificazioni al suo impianto, gli scopi avuti di mira con la sua istituzione.

[16] Che il largo pubblico dei consumatori ignori l’esistenza degli “appositi siti internet” creati dagli artt. 490, comma 2, c.p.c. e 173-ter disp. att. c.p.c. è dovuto naturalmente alla circostanza, sottolineata sin dagli dagli anni ’60 del secolo scorso da N. KALDOR e G. STIGLER, che la pubblicità richiede ingenti investimenti («advertising itself has its own limitations: advertising itself is an expense» G. STIGLER, The economics of information, cit., 216); investimenti che nessuna delle imprese iscritte all’elenco tenuto dal Ministero della giustizia e tanto meno il portale delle vendite pubbliche, nonostante il sussidio accordato dall’art. 490 c.p.c. a carico delle parti del processo esecutivo, ha mai veramente effettuato in misura significativa.

[17] La tendenza a dettare discipline ‘singolari’ della pubblicità nel processo esecutivo è confermata, da ultimo, nell’art. 1, comma 1101, della l. 27 dicembre 2017, n. 205, il quale prevede che: “La pubblicità delle vendite giudiziarie immobiliari, gestite dagli uffici  dei  tribunali  competenti  in  materia  di  esecuzioni immobiliari,  è  assicurata  mediante i quotidiani cartacei più diffusi sul territorio  nazionale  e  attraverso  i  siti  web,  come previsto a legislazione  vigente. Con  decreto  del  Ministro  della giustizia, da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono definiti i criteri e  le  modalità di attuazione del presente comma”. Col che sembrerebbe trasformata in obbligatoria la pubblicità, ora solo eventuale, sui quotidiani cartacei, peraltro individuati in modo restrittivo con quelli “più diffusi sul territorio nazionale”.

[18] L’attività di ricerca presuppone normalmente che il consumatore o l’investitore dispongano di un tempo minimo di scoperta e apprendimento dell’informazione e che al potenziale acquirente sia dato il tempo di valutare e comparare le alternative presenti sul mercato; l’attività di ricerca richiede, inoltre, un tempo sufficiente per esaminare il bene (ad es. visitare l’immobile), nonché, nei casi che implicano un investimento più significativo di risorse, la possibilità di effettuare una due diligence incaricando un professionista e, quasi sempre, quello di ricercare idonee fonti di finanziamento. Esigenze queste che molto difficilmente possono essere soddisfatte nel breve arco temporale di 45 o 30 giorni, almeno nel caso della vendita di immobili.

[19] Lo dimostra, tra l’altro, la circostanza che i tempi medi di vendita delle agenzie immobiliari nel mercato immobiliare nazionale oscillano mediamente tra i 6 e gli 8 mesi (così il Sondaggio congiunturale sul mercato delle abitazioni in Italia pubblicato dalla Banca d’Italia il 16 novembre 2017) di modo che una campagna pubblicitaria della durata ristrettissima consentita dalla legge sostanzialmente vanifica l’intento di diffondere quanto più possibile la notizia della vendita.

[20] Così la Relazione al codice del Ministro Guardasigilli, cit. I fenomeni di assottigliamento e scomparsa dei mercati dominati dalla diffidenza e dalla percezione negativa dei consumatori sono stati illustrati nell’ambito della teoria economica da G. AKERLOF, The Market for Lemons: Quality Uncertainty and the Market Mechanism, 1970 nella versione italiana, Il mercato dei «bidoni»: l’incertezza della qualità e il meccanismo di mercato, in Racconti di un Nobel dell’economia, Milano, 2003, 20 ss.

[21] Per questa impostazione S. SATTA, L’esecuzione forzata, Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, Torino, 1963, 150, il quale scriveva a proposito dell’udienza ex art. 569 c.p.c. che la «ragione dell’incontro delle parti che giustifica la udienza di fissazione è data, nello spirito della legge, dal contributo che esse possono apportare nella determinazione delle modalità della vendita. Per quanto la pratica abbia, non senza ironia, designato questa udienza col nome di parlamentino non vi è nulla in essa che ricordi i metodi democratici. La decisione spetta in ogni caso al giudice che dispone la vendita con ordinanza». Così anche V. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, Del processo di esecuzione, Vol. III, Milano, 1957, 68, dove si legge che finalità dell’audizione delle parti nel processo esecutivo è «più la deduzione di notizie che la proposizione di istanze o ragioni». Affermazioni queste degli illustri scrittori che sembrano collegarsi alla tradizionale sottovalutazione della rilevanza giuridica del quomodo exequendum nello schema del processo esecutivo e, di riflesso, a una sottovalutazione dell’importanza che assume la posizione degli interessati in ordine alle concrete modalità della vendita, degradate a operazioni materiali o mere questioni di opportunità pratica. Così C. MANDRIOLI, L’azione esecutiva, Contributo alla teoria unitaria dell’azione e del processo, Milano, 1955, 465-466; e, prima, C. FURNO, Disegno sistematico delle opposizioni nel processo esecutivo, Milano, 1942, 114-117, il quale, dopo aver rilevato che le ‘osservazioni’ delle parti sulle modalità della vendita (art. 569 c.p.c.) sono «dirette ad influire sulla formazione del provvedimento esecutivo» quali «strumenti di sollecitazione di quel controllo politico sulle attività esecutive – e segnatamente sulle attività d’ufficio (provvedimenti) – che ben s’intona ai larghi ed elastici poteri discrezionali del giudice dell’esecuzione», riduceva le ‘osservazioni’ a «richiesta bonaria» rivolta a giudice dell’esecuzione il quale «non è tenuto a prenderla in considerazione, a provvedere su di essa; anzi, anche se provvede, provvede d’ufficio». Più di recente nello stesso senso, G. BONGIORNO, Espropriazione immobiliare, Dig. disc. priv., 1992, vol. VIII, 46. Della completa svalutazione dei poteri delle parti nell’udienza ex art. 530 e 569 c.p.c., alcuni decenni dopo, è esemplare l’autorevole e voluminoso Manuale dell’esecuzione forzata, cit. di A. SOLDI, p. 925 e specialmente p. 1323 che nel paragrafo intitolato I diritti delle parti si limita a riportare il testo delle disposizioni legislative. La concezione autoritaria del processo esecutivo naturalmente affonda le radici negli ideali che permearono la codificazione fascista, come emerge dalla Relazione al codice, cit. del Ministro Guardasigilli, al §12 intitolato Rafforzamento dei poteri del giudice per la direzione del processo, ove si trova affermato che: «Il nuovo codice vuole fondamentalmente elevare l’autorità del giudice ed aumentarne i poteri: questa è, per tutte le ragioni esposte all'inizio della presente relazione, la direttiva fondamentale della riforma. Il giudice […] è l’organo a cui lo Stato affida il compito essenziale di attuare la legge attraverso il procedimento. Al fondo della questione sta il rinnovato concetto di dignità e di autorità dello Stato fascista e del suoi organi, per cui non sarebbe concepibile che il giudice assista, spettatore impassibile, e talvolta impotente, quasi fosse un arbitro in un campo ginnastico che si limita a segnare i punti e a controllare che siano osservate le regole del gioco, ad una lotta che impegna invece direttamente la più gelosa e la più alta funzione e responsabilità dello Stato. Occorre quindi che il giudice abbia una precisa direzione del processo, una posizione preminente e regolatrice». E v. anche il §31, intitolato “Processo di esecuzione”, ove si trova rimarcato che «la diretta ingerenza che il giudice dell’esecuzione avrà nelle trattative, la possibilità che egli avrà di mettere a profitto in ogni momento la consulenza degli interessati e la loro esperienza pratica di affari, faranno sì che questi nuovi mezzi di liquidazione ora adottati dal codice possano essere messi in opera col massimo dei vantaggi e senza gli inconvenienti ai quali potrebbero dar luogo se non si svolgessero con appropriate cautele e sotto il controllo dell'autorità».

[22] Nonostante il significativo peso della tradizione, appare in realtà piuttosto dubbio che il potere di formulare «osservazioni» non vincolanti all’udienza di vendita possa esaurire i diritti delle parti in ordine alla determinazione delle modalità della vendita. Più persuasiva appare invece l’ipotesi che le «osservazioni» costituiscano, insieme alle «domande» e alle «istanze» (art. 486), una delle possibili manifestazioni del diritto delle parti di influenzare il quomodo exequendum e, in particolare, che possa ravvisarsi nelle «osservazioni» l’esplicazione dell’attività assertiva e probatoria delle parti riguardante i profili controversi del procedimento liquidatorio allorché emergano contestazioni in ordine alle rispettive «domande». Una volta constatato che le modalità della vendita dei beni pignorati integrano una componente essenziale della domanda di tutela esecutiva del credito – poiché le attività di marketing del bene pignorato influenzano in modo decisivo il rendimento dell’esecuzione forzata – e costituiscono, quindi, un aspetto decisivo dell’effettività della risposta giurisdizionale approntata dall’ordinamento, deve, infatti, essere altresì assicurata dal giudice dell’esecuzione l’osservanza delle disposizioni generali del Libro I del codice di procedura civile che governano i poteri del giudice (principio della domanda, corrispondenza tra chiesto e pronunciato, non contestazione, etc.) opportunamente adattate all’ambiente esecutivo. Alle disposizioni generali che governano l’esercizio dei poteri del giudice deve inoltre aggiungersi la disciplina degli accordi processuali delle parti nelle materie di cui queste possono disporre (art. 177, comma 3, n. 1, c.p.c.). Proprio alla stregua di quest’ultima norma generale, illuminata dai singoli poteri di determinazione delle modalità esecutive riconosciuti ai creditori nel contesto del processo esecutivo, può ricavarsi, a nostro avviso, la facoltà dei creditori di definire, tramite accordi vincolanti per il giudice dell’esecuzione, la strategia liquidatoria di volta in volta più appropriata. In una prospettiva più generale deve peraltro notarsi che l’attribuzione in favore dei creditori del potere di determinazione delle modalità di liquidazione nel processo esecutivo s’iscrive in una traiettoria di rafforzamento dell’azione dei creditori conforme alle più recenti evoluzioni delle procedure d’insolvenza (104-ter l.f.) e alla proliferazione delle misure di autotutela privata del credito (v. sopra nota 3). Ragioni di coerenza del sistema inducono a ritenere che sarebbe perciò assai riduttivo – oltre che ingiustificato dati i gravi problemi di inefficienza delle procedure esecutive nel nostro paese – coltivare una simile traiettoria esclusivamente per il processo fallimentare, perpetuando visioni ‘dirigistiche’ del processo esecutivo individuale. Tanto più se si considera che istanze pubblicistiche e valori collettivi, per definizione, si presentano nel processo esecutivo individuale con intensità assai minore di quanto non avvenga nell’esecuzione concorsuale.

[23] In riferimento all’amministrazione giudiziaria appare emblematica Cass. 26.12.2006, n. 27148, la quale ha, tra l’altro, stabilito che l’amministrazione giudiziaria dell’immobile, prevista dall’art. 591 c.p.c. come alternativa rispetto ad un secondo esperimento di vendita con prezzo ribassato, «è rimessa alla decisione del giudice dell’esecuzione, a prescindere da una espressa domanda dei creditori procedenti […]».

[24] Per il rilievo che «la causa principale della scarsa efficienza del sistema delle vendite immobiliari è (stata) rappresentata dalla non sempre piena ed univoca corrispondenza tra il concreto svolgimento delle vendite giudiziarie e l’andamento effettivo del mercato immobiliare», L. MONTESANO – G. ARIETA, Trattato di diritto processuale civile, L’esecuzione forzata, V. II, t. 2, Padova, 2007, 1069.

[25] Ciò peraltro secondo l’aspirazione tradizionalmente coltivata dal legislatore e mai veramente realizzata di «perfezionare i mezzi volti ad accrescere il rendimento economico della esecuzione, attraverso l'adozione di quel modi di liquidazione del bene che la pratica delle libere contrattazioni ha dimostrato più celeri e più vantaggiosi», assicurando che «i beni di cui il debitore è espropriato siano venduti per il loro giusto prezzo e non gli siano strappati per cifre irrisorie da chi vuol profittare della sua disavventura per spogliarlo del patrimonio» (cfr. Relazione al codice, cit.). «Su questo terreno», si trova scritto nella Relazione, «la tutela del creditore onesto e la difesa del debitore sciagurato coincidono: il nuovo Codice […] ha cercato di dare al processo esecutivo quella scioltezza e quella adattabilità di forme che permetterà, secondo le circostanze, di trovare nella espropriazione quello stesso rendimento economico che potrebbe essere raggiunto sul mercato attraverso le intese fra privati». Per un analogo rilievo L. MONTESANO – G. ARIETA, Trattato di diritto processuale civile, cit., 1069, ove si afferma che: «Il compito del legislatore del processo esecutivo non è quello di ‘indirizzare’ (o, più ancora, di ‘conformare’) il libero mercato delle vendite, bensì di osservarne l’andamento e di offrire agli operatori norme che – incidendo ‘virtuosamente’ sui tempi e sulle modalità delle procedure giudiziarie – siano tali da ‘assecondare’ quel mercato, cioè da far sì che il prezzo di liquidazione del bene staggito sia tendenzialmente il medesimo che si ricaverebbe a seguito di una libera contrattazione di mercato». Per una risalente e sempre attuale critica della tendenza del legislatore ad emanare normative che non sono precedute «dal necessario esame della nostra realtà economica» e per l’assenza di studi e ricerche «volti ad accertare la frequenza e il ricorso a determinati istituti giuridici», T. ASCARELLI, Il codice civile e la sua « vigenza », Saggi di diritto commerciale, Milano, 1955, 461 ss. Per l’invito a «studiare la pratica mercantile dominata com’è dalle grandi leggi economiche, facendo dello studio del diritto una scienza di osservazione», C. VIVANTE, Trattato di diritto commerciale, Milano, 1893, Prefazione alla Iª  edizione.

[26] Le aste telematiche per beni diversi dalle commodities e dagli strumenti finanziari negoziati sui mercati regolamentati che ne costituiscono il modello originario, così come il portale delle vendite pubbliche (e il “mercato unitario telematico delle vendite” di cui all’art. 7, comma 9, lett. b, della L. 155/2017), costituiscono, da questo punto di vista, una grossolana deviazione dagli standard di mercato, particolarmente per quanto attiene agli assets immobiliari (v. infatti la direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell'8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione e in particolare al commercio elettronico nel mercato interno, la quale escludeva dal proprio scope i contratti che istituiscono o trasferiscono diritti relativi a beni immobili). Data l’inesistenza di un mercato delle vendite immobiliari on line (i.e. l’inesistenza di piattaforme, investitori e consumatori che quotidianamente contrattano on line la compravendita di immobili come invece avviene appunto per le commodities), in caso di contrasto tra i creditori in ordine alla scelta delle migliori modalità di vendita, difficilmente il giudice potrà, quindi, a nostro avviso, considerare legittimamente l’adozione del modello dell’asta telematica, quale che ne sia la forma. E infatti mentre nelle vendite in forma mista, telematica e analogica, il costo del servizio di gestione dell’asta telematica posto a carico delle parti, per quanto apparentemente modesto, non sarebbe in alcun modo compensato in termini di ampliamento di partecipazione dei potenziali acquirenti, tanto più se si considera l’effetto deterrente dell’innalzamento dei prezzi connesso alle commissioni eventualmente applicate all’aggiudicatario del bene, con l’adozione delle forme telematiche di tipo puro vi sarebbe anche la certezza di ostacolare gravemente la partecipazione di una larga parte dei potenziali interessati in contrasto con la funzione generale assegnata alle procedure competitive; ostacolo da cui non può che discendere l’invalidità delle gare. L’inesistenza di mercati reali dove si scambiano beni immobili on line è, peraltro, confermata oltre che dal carattere assolutamente marginale delle esperienze illustrate da G. BORRELLA - S. PITINARI, Le vendite telematiche, cit., dal rilievo decisivo che nessuno tra i grandi players dello shopping on line abbia mai seriamente ritenuto conveniente, fino ad oggi, lanciare i propri servizi sul mercato immobiliare evidentemente in considerazione delle particolari caratteristiche dell’attività di ricerca e del comportamento di acquisto dei consumatori in quel settore. Sicché, dato lo stato di crisi in cui versa la tutela esecutiva del credito, l’idea bizzarra di anticipare i giganti dello shopping on line ‘inventando’ tecnologie e mercati inesistenti ci pare afflitta nello scenario più benevolo da un atteggiamento di overconfidence e nello scenario peggiore da una pericolosa hybris. Questo non toglie naturalmente che negli anni a venire potranno modificarsi radicalmente le modalità di ricerca e i comportamenti di acquisto degli immobili da parte dei consumatori e degli investitori professionali. E non toglie naturalmente che nei prossimi anni o nei prossimi decenni potrà svilupparsi massicciamente, a livello globale e poi nel nostro paese, lo shopping on line dei beni immobili; tuttavia, se un ipotetico tribunale avesse oggi «l’ambizione di presentarsi come una grande agenzia immobiliare, anzi, la prima agenzia immobiliare del proprio territorio» (così G. BORRELLA-S. PITINARI, Le vendite, cit.) dovrebbe essere consapevole che, nello stato del mondo in cui viviamo, semplicemente non esistono attori del mercato immobiliare che organizzano aste telematiche per vendere gli immobili dei propri clienti e che difficilmente i clienti sarebbero disposti a conferire mandato ad un intermediario immobiliare che in buona fede esponesse loro i costi effettivi e l’inutilità pratica di quel mezzo nei mercati reali. Se un intermediario modello, in buona fede, dovrebbe astenersi dal proporre ai propri clienti il sostenimento di costi inutili e l’utilizzo di strumenti inefficaci di collocamento degli immobili, pena l’insuccesso e l’espulsione dal mercato, a fortiori, crediamo, dovrebbe così comportarsi anche un ipotetico tribunale che volesse «presentarsi come una grande agenzia immobiliare» e che degli operatori di mercato dovrebbe mimare le condotte più virtuose. Per una diversa impostazione, la Circolare di adeguamento delle vendite telematiche del Tribunale di Milano, cit., la quale dopo aver esattamente premesso «la natura insostituibile [dell’art. 107, comma 1, l.f.] che assicura alla vendita fallimentare la sua caratteristica elasticità e capacità di conformarsi alla fattispecie al fine di perseguire la migliore recovery per i creditori», e «l’intenzione di valorizzare la stessa ed il soggetto che per legge ha la sua gestione, ovvero il curatore, che deve ritenersi il soggetto privilegiato nello svolgimento dell’attività di liquidazione», reputa però «che alla luce dei nuovi interventi legislativi e della intervenuta obbligatorietà di alcune formalità, vada indagata quale è la volontà del legislatore in termini di vendite affinché quella fallimentare, che ne è una declinazione, possa essere in sintonia colla direzione che l’ordinamento ha ormai da alcuni anni assunto», giungendo alla conclusione «che il paradigma della vendita esecutiva così come emerge dai vari interventi legislativi debba essere non solo competitivo, ovvero chiaro, trasparente, aperto alla partecipazione del maggior numero possibile di soggetti ed efficiente quanto ai risultati, ma anche tracciabile nelle attività collaterali, come la gestione delle visite ed idoneo a consentire le rilevazioni statistiche ed a implementare un sistema moderno ed in rete di offerta dei beni al mercato che sfugga alle turbative d’asta» quale è «rispecchiato in termini generali dalla vendita delineata dal d.m. 32 del 2015 e si riassuma nella vendita telematica, pubblicizzata tramite PVP che presenta e implica in nuce tutte le caratteristiche suindicate». A parte l’osservazione che «un sistema moderno ed in rete di offerta dei beni al mercato», come quello immaginato dal Tribunale di Milano, per quanto riguarda gli immobili, non trova alcun riscontro nelle società ad economia avanzata, neppure nel settore più evoluto dell’asset management, e in disparte il rilievo che l’offerta on line di beni al mercato deve essere assicurata da adeguati meccanismi di pubblicità commerciale, possibilmente con l’utilizzo di canali di intermediazione commerciale specializzati (v. 107, comma 1, l.f.), che nulla hanno a che vedere con le aste telematiche e tanto meno con il portale delle vendite pubbliche, come si vedrà in seguito proprio il mancato richiamo, nell’art. 107 l.f. e nelle diverse discipline che vi si ispirano, del regime delle vendite telematiche esclude radicalmente, in una considerazione di sistema, che tale modalità di commercializzazione possa assurgere a regola cogente nelle procedure d’esecuzione forzata collettiva o individuale e orienta per la natura dispositiva di quel regime. Che la bontà del sistema di tutela esecutiva del credito debba poi essere sacrificata o anche soltanto bilanciata con la preoccupazione di rendere tracciabili attività dichiaratamente «collaterali» come la gestione delle visite o con l’esigenza di «consentire […] rilevazioni statistiche» sono poi affermazioni palesemente inaccettabili per chiunque si proponga, se non l’obiettivo di contribuire ad una maggiore efficienza della tutela del credito, quanto meno l’ambizione di non peggiorare lo status quo. Costituisce, infine, come si vedrà, un evidente fraintendimento l’affermazione secondo cui il sistema delle vendite telematiche consentirebbe di sfuggire al rischio di turbative, atteso che nessun investitore professionale, italiano o estero, e tanto meno una famiglia comprerebbero rispettivamente ad es. uno stabilimento industriale o una casa d’abitazione senza prima aver esaminato o condotto una due diligence approfondita sul bene cosicché, fuori dal caso di beni standard normalmente acquistati a distanza dai consumatori, è quantomeno ingenuo ritenere che tale sistema possa azzerare o anche solo minimizzare il pericolo di interferenze illecite nelle attività di vendita.

[27] Norme fondamentali che in quanto dotate di forza espansiva sono generalizzabili nei settori più disparati come confermato dalla loro applicazione alle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento (art. 14-novies l. n. 3 del 2012) e nel campo del pegno possessorio in base all’art. 1, comma 7, lett. a), del d.l. n. 59 del 2016 conv. con modificazioni nella l. n. 119 del 2016, ove è previsto che la vendita dei beni oggetto di pegno “è effettuata dal creditore tramite procedure competitive anche avvalendosi di soggetti specializzati, sulla base di stime effettuate, salvo il caso di beni di non apprezzabile valore, da parte di operatori esperti, assicurando, con adeguate forme di pubblicità, la massima informazione e partecipazione degli interessati; l'operatore esperto è nominato di comune accordo tra le parti o, in mancanza, è designato dal giudice; in ogni caso è effettuata, a cura del creditore, la pubblicità sul portale delle vendite pubbliche di cui all'articolo 490 del codice di procedura civile”.

[28] F.A. VON HAYEK, La concorrenza come procedimento di scoperta, Competizione e conoscenza, Soveria Mannelli, (rist.) 2017, 94. 

[29] L. VON MISES, Burocrazia, Soveria Mannelli, (rist.) 2009, pag. 63 e più di recente C.R. SUNSTEIN, Effetto Nudge, La politica del paternalismo libertario, Milano, 2015, 13, ove l’economista comportamentale e premio Nobel, convinto fautore di una forma di paternalismo debole, ci ammonisce che anche «i paternalisti più benevoli possono sbagliare grossolanamente e alcuni sono tutt’altro che benevoli»; ma v. già G. CHIOVENDA (in Identificazione delle azioni, Sulla regola «ne eat iudex ultra petita partium», Saggi di diritto processuale civile, 1993, Milano, I, 177) il quale osservava che «se è un male che talvolta la difesa delle parti sia mal condotta, è un male anche peggiore incoraggiare le facili aspirazioni alla onniscienza ed alla onnipotenza dei giudici acres atque celeres».

[30] Lo ricorda di recente da noi G. IUDICA, citando Vilfredo Pareto, in Il dibattito sull’ordine giuridico del mercato, Bari, 1999, pag. 50.

[31] Vedi ad es. S. ROSSETTI, La pubblicità e la vendita telematica, ivi, 2018, il quale osserva che originariamente, «la disposizione di cui all’art. 569 co. 4 c.p.c., introdotta con d.l. 193/2009, convertito in l. 24/2010, prevedeva solo la facoltatività della gara telematica (“il giudice può stabilire” e non “stabilisce”, come oggi previsto)» dal che l’autore desume che con «la riforma del 2016, le vendite telematiche divengono sostanzialmente obbligatorie, ad eccezione della residuale (e difficile da immaginare in astratto) ipotesi in cui tale modalità di vendita sia pregiudizievole per i creditori o per il sollecito sviluppo della gara». Nello stesso senso sostanzialmente, A. SOLDI, Manuale, cit., R. D’ALONZO, La vendita immobiliare telematica, cit., G. BORRELLA-S. PITINARI, Questioni in tema di vendite telematiche, cit. e A. CRIVELLI, Le vendite telematiche, cit. e E. FABIANI, La vendita forzata telematica, cit.

[32] Modificato, come si è detto, dall’art. 4, comma 1, lett. e), del d.l. n. 59 del 2016 conv. con modificazione dalla l. n. 119 del 2016. 

[33] A. CRIVELLI,  Le vendite telematiche, cit..

[34] Così tutti gli autori citati alla nota 1.

[35] Nella relazione illustrativa al d.l. n. 59 del 2016 come si ricordava si trova, infatti, espressa l’idea che “al fine di migliorare il tasso di efficienza e di trasparenza del mercato delle vendite forzate, si prevede che le vendite dei beni immobili pignorati abbiano luogo obbligatoriamente con modalità telematiche […]. In tal modo si estende al settore delle vendite immobiliari la regola introdotta nell’art. 530 del codice di procedura civile dal decreto legge n. 90 del 2014 […] che ha previsto che la vendita di ben mobili pignorati deve aver luogo con modalità telematiche”. Sennonché i redattori della relazione non si sono avveduti che la norma che andavano commentando non poteva in alcun caso avere l’effetto innovativo di introdurre in via ‘obbligatoria’ le vendite telematiche immobiliari per la semplice ragione che anche prima del d.l. n. 59 del 2016 il giudice dell’esecuzione era investito del dovere inerente al suo ufficio di realizzare al meglio la vendita forzata immobiliare; dovere funzionale che, nei limiti delle alternative consentite dalla legge, già, quindi, senz’altro obbligava il giudice a selezionare i migliori canali messi a sua disposizione per ricercare potenziali acquirenti sul mercato, ivi incluse le modalità telematiche se questo specifico canale avesse offerto maggiori probabilità di successo dell’attività liquidatoria. Come emergerà infra nel testo un’innovazione realmente significativa introdotta dal D.L. 59/2016 consiste invece nel vincolare esplicitamente le decisioni del giudice dell’esecuzione agli interessi e quindi, di riflesso, alle determinazioni dei creditori nell’ambito dell’attività liquidatoria.

[36] R. CAPONI, La rimessione in termini, Milano, 1996, 14.

[37] In altri termini, così come non potrebbe ragionevolmente sostenersi che il giudice abbia la «facoltà» di pronunciare la sentenza, la «facoltà» di svolgere l’istruzione probatoria, la «facoltà» di segnalare al P.M. l’insolvenza che abbia rilevato nel corso di un procedimento civile, etc. allo stesso modo non può sostenersi che il giudice dell’esecuzione sia titolare di poteri facoltativi nell’esercizio della funzione esecutiva. Per il rilievo che è «tipica degli organi del processo la situazione giuridica processuale del “dovere” » C. MANDRIOLI-A. CARATTA, Diritto processuale civile, cit., vol. I, 29 e E. FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1996, 419, ove l’affermazione che per quanto riguarda gli atti processuali del giudice e dei suoi ausiliari «essi sono sempre qualificati dalle norme che li disciplinano come atti ‘doverosi’: costituiscono quindi dal punto di vista delle posizioni soggettive altrettanti ‘doveri’ di quegli organi pubblici. Questa constatazione valida per tutti i tipi di giurisdizione fa parte del più generale principio per cui qualsiasi organo pubblico e non soltanto il giudice deve assolvere il proprio compito»; id. E. FAZZALARI, Provvedimenti del giudice (dir. proc. civ.), Enc. dir., [XXXVII, 1988]. 

[38] Sembrano incorrere in questo travisamento ad es. S. ROSSETTI, La pubblicità e la vendita telematica, cit., quando afferma che originariamente “la disposizione di cui all’art. 569 co. 4 c.p.c., introdotta con d.l. 193/2009, convertito in l. 24/2010, prevedeva solo la facoltatività della gara telematica” e E. FABIANI, La vendita forzata telematica, 95.

[39] Per una chiara affermazione giurisprudenziale del principio per cui il verbo «può» impiegato nella formulazione delle disposizioni del codice «non si presta affatto a giustificare una c.d. discrezionalità del giudice dell’esecuzione nell’esercizio del potere disgiunta dalla necessaria individuazione dei presupposti giustificativi» e che il  «può» «come in ogni caso nel quale la legge attribuisce al giudice nel quadro della disciplina del processo civile un potere con formule simili, sottende in realtà, che il potere sorge se esistono condizioni che bisogna individuare», per «la decisiva ragione che il suo esercizio, inserendosi in un processo, quello esecutivo, che è processo di parti […], si presta ad interferire sulle situazioni coinvolte nell’esercizio della giurisdizione determinato dall’azione esecutiva. Di modo che non è tollerabile che si tratti di potere i cui limiti non debbano avere dei presupposti che necessariamente tengano conto dell’atteggiarsi delle situazioni soggettive coinvolte nel processo», v. Cass. 21.9.2015, n. 18451. E’ esemplare, a nostro avviso, da questo punto di vista l’art. 572, comma 3, c.p.c. il quale prevede che là dove «il prezzo offerto è inferiore rispetto al prezzo stabilito nell’ordinanza di vendita in misura non superiore ad un quarto il giudice può far luogo alla vendita quando ritiene che non vi sia seria possibilità di conseguire un prezzo superiore con una nuova vendita». Ora, è evidente che, a dispetto della formula lessicale, questa norma non riconosce alcun potere facoltativo di scelta ma è volta a regolare l’esercizio di un potere-dovere discrezionale sicché deve essere rettamente intesa nel senso che: se il giudice ravvisa una seria possibilità di conseguire un prezzo superiore con un nuovo esperimento di vendita (presupposto) allora deve astenersi dall’aggiudicazione (conseguenza); viceversa, se non intravede una seria possibilità di conseguire un prezzo superiore (presupposto) allora deve senz’altro procedere all’aggiudicazione (conseguenza), non potendosi ammettere che in mancanza di una effettiva prospettiva di realizzo ad un prezzo più alto il giudice disponga un nuovo tentativo di vendita. Escluso che l’esercizio del potere del giudice possa risolversi in una scelta meramente ‘facoltativa’ tra alternative egualmente legittime, il problema cruciale diventa perciò quello di stabilire i fatti e le circostanze che devono venire in rilievo affinché il giudice possa motivare l’esistenza di una ‘seria’ possibilità di conseguire un prezzo superiore, secondo una logica non distante da quella delineata dall’art. 503, comma 2, c.p.c.: con la differenza che mentre quest’ultima disposizione assume i lineamenti di una bright rule (i.e. il giudice deve indicare le circostanze concrete che lo inducono a ritenere probabile la vendita ad un prezzo superiore della metà rispetto a quello determinato ai sensi dell’art. 568 c.p.c.), l’art. 572 introduce uno standard (i.e. il giudice deve motivare le circostanze concrete che lo inducono a ritenere seria e non immaginaria o meramente ipotetica la prospettiva di realizzare sul mercato un prezzo migliore di quello offerto).

[40] E. FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale, cit., 419, ove si rileva che quando la legge assegna al giudice margini di scelta nell’esercizio di un potere processuale “la scelta attiene alla determinazione del contenuto (latu sensu) dell’atto (nel senso che l’agente con riferimento alla «causa» prefissagli potrà scegliere in tutto o in parte il contenuto del proprio comportamento per adeguarlo alla medesima) ma non incide sulla valutazione di doverosità che la norma collega all’atto; né lo potrebbe per alcun verso giacché la valutazione è logicamente distinta dalla condotta, è prefissata dalla norma e non sovvertibile dall’agente […]. Si conferma e contempla, qui, il profilo della «discrezionalità», come scelta del comportamento svolgentesi nell’ambito del dovere; e si delinea con evidenza la distinzione tra «dovere vincolato» e «dovere discrezionale», più esattamente tra «dovere a contenuto vincolato» e «dovere a contenuto discrezionale»”. E in sede di teoria generale S. PUGLIATTI, Esecuzione forzata e diritto sostanziale, cit. 763-764, il quale insegnava che “in generale il potere è il genus che comprende: il potere in senso tecnico o ristretto e diritto subbiettivo. Il potere in senso tecnico è il mezzo con cui un determinato soggetto adempie alla funzione alla quale è preposto. Esso è quindi da ricollegare, in ultima analisi, con un determinato ufficio pubblico (es. quello del magistrato) o privato (es. la tutela). Di regola la nozione del potere di completa con quella del dovere, che è anzi il momento anteriore del processo logico che può schematizzarsi come segue: l’ufficio impone al soggetto re ipsa il dovere di adempiere alla funzione specifica che ne costituisce il fondamento; l’adempimento di tale funzione   ha luogo mercé l’esercizio del potere a tal fine concesso al soggetto titolare dell’ufficio […]. I caratteri distintivi tra potere e diritto subbiettivo sono dunque i seguenti: il diritto subbiettivo include in se medesimo il proprio fine, è una entità compiuta e piena; il potere invece ha carattere strumentale: il mezzo destinato alla realizzazione di un dato fine, e costituisce soltanto uno degli aspetti nei quali si specifica la funzione del soggetto che ne è investito; l’altro aspetto, che costituisce il prius è il dovere”. Sempre in sede di teoria generale anche SANTI ROMANO, Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947, 178-179: “Fondamentale è la distinzione dei poteri a seconda che si esercitano nell’interesse proprio del titolare o da questo per un interesse non proprio o non esclusivamente proprio cioè per un interesse altrui o per un interesse oggettivo. I poteri di questa categoria prendono il nome di «funzioni» o «uffici» e ricorrono principalmente nel diritto pubblico, ma anche nel diritto privato […]. Anzi è da rilevare, a questo proposito, che è alquanto diffusa l’opinione che la figura del potere o della potestà si abbia solo quando il potere riguarda un interesse cui rimane estraneo il soggetto.  Sarebbe, per esempio, un potere o una potestà la funzione giurisdizionale, ma sarebbe un diritto soggettivo l’azione […]. Carattere proprio delle funzioni così pubbliche che private è di essere nel medesimo tempo libere e vincolate: libere in quanto il loro soggetto ha sempre una  certa sfera nella quale si fa valere la sua volontà; vincolate, in quanto, non solo non possono esorbitare da certi limiti; ma debbono esercitarsi se, quando e come lo richiedono gli interessi per cui sono costituite. Perciò la libertà massima ad esse consentita non è mai pieno arbitrio ma il «prudente arbitrio»: ogni funzione è potere più o meno discrezionale”. Più di recente sulla natura doverosa dei ‘poteri del giudice’ A. CARATTA, in A. CARATTA-M. TARUFFO, Poteri del giudice, Commentario del Codice di Procedura Civile, cit., 1 ss. con ampi riferimenti di letteratura.

[41] Discorreva di potere-dovere F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, I, cit., 162, ove l’affermazione che: «L’esercizio della funzione esecutiva costituisce insieme il contenuto di un potere e di un dovere dell’organo; mentre l’azione delle parti, nel processo esecutivo come nel processo di cognizione è un potere-diritto».

[42] Eccetto che nei casi in cui esista pieno accordo tra le parti sulla strategia liquidatoria non può quindi essere condivisa la prospettiva di G. FANTICINI, Le opposizioni, cit., là dove afferma che mentre «l’opzione per la vendita telematica (regola) esige soltanto il richiamo del disposto normativo, il provvedimento che imponga la vendita in forme “tradizionali” (eccezione) richiede una (sia pur succinta) motivazione, la quale non può risolversi in una tautologica trascrizione del testo di legge, ma, piuttosto, nell’illustrazione delle concrete ragioni che hanno determinato la scelta del giudice» (nello stesso senso E. ASTUNI, La fase della vendita, cit., 556 e E. FABIANI, La vendita forzata telematica, cit., 96). In realtà, poiché, come si vedrà subito, la cosiddetta «clausola di salvezza» contenuta negli artt. 530 e 569 c.p.c. non esprime affatto un dispositivo rigido in grado di predeterminare esattamente le circostanze in presenza della quale sorge l’obbligo per il giudice di disapplicare il regime delle vendite telematiche, non è neppure possibile stabilire a priori quale ampiezza abbia lo spazio effettivo di applicazione di quel sistema. E poiché in assenza di una bright rule (del tipo: le vendite telematiche non si applicano sotto la soglia di valore di 5.000,00 euro) il potere giuridico attribuito al giudice non si configura come un potere ‘vincolato’ e, quindi, il giudice dovrà sempre adottare una scelta discrezionale, ne deriva anche che la sua decisione dovrà necessariamente essere motivata almeno in presenza di un conflitto tra le parti sul punto. Al di là dell’obbligo di motivazione, non persuade, in quanto costituisce una vera e propria petizione di principio, l’idea piuttosto comune secondo cui la vendita in forme tradizionali si atteggerebbe oramai ad ‘eccezione’ rispetto alla nuova regola ‘generale’ costituita dalle vendite telematiche (così tra gli altri esplicitamente G. BORRELLA- S. PITINARI, Questioni in tema di vendite telematiche, cit., S. ROSSETTI, La pubblicità e la vendita telematica, cit. e E. FABIANI, La vendita forzata telematica, cit.). A quest’opinione può replicarsi anzitutto con il rilievo di ordine sintattico per cui le frasi subordinate eccettuative introdotte dalle locuzioni “salvo che”, “eccetto che”, “a meno che”, “tranne che”, etc., a dispetto dell’apparenza, non hanno la funzione esclusiva di descrivere eventi poco probabili o eccezionali rispetto ad asserzioni di validità generale contenute nella proposizione principale (così ad es. 135, 176 c.p.c.), ma assumono quasi sempre o comunque il più delle volte il valore semantico di proposizioni di tipo ipotetico o condizionale (così ad es. artt. 299 e 306, comma 3 c.p.c.). Nella maggioranza dei casi, dunque, le locuzioni “salvo che” e simili introducono una forma di condizionamento della proposizione principale, indicando un’esigenza che deve essere soddisfatta perché l’evento o l’azione descritti nella proposizione principale possano effettivamente compiersi (v. L. SERIANNI, Grammatica italiana, Italiano comune e lingua letteraria, 2016, 593 e 619), senza che sia però dato a priori conoscere, in mancanza di ulteriori informazioni ricavabili dal contesto, la probabilità dell’evento o dell’azione condizionante e, quindi, indirettamente la probabilità dell’evento o dell’azione condizionati. Data la struttura elastica degli artt. 530 e 569 c.p.c. sembra difficilmente controvertibile che la frase: «il giudice stabilisce [la vendita con modalità telematiche] salvo che sia pregiudizievole per gli interessi dei creditori o per il sollecito svolgimento della procedura» sia del tutto equivalente a quella: «il giudice stabilisce [la vendita con modalità telematiche] se [a condizione che, purché, sempreché, quando, ogniqualvolta] non sia pregiudizievole per gli interessi dei ceditori o per il sollecito svolgimento della procedura». Abbandonato il piano sintattico e da un punto di vista logico, prescindendo, quindi, per ora da considerazioni di ordine sistematico, è inoltre chiaro che, intanto, può parlarsi di un rapporto regola-eccezione in quanto si conoscano precisamente in anticipo le evenienze (numerose) in cui troverà applicazione la “regola” e le circostanze (poche) in cui troverà applicazione la “eccezione” (ad es. 18, 19, 50-bis, n. 1, 113, 115 c.p.c.). E però, come si è detto, il legislatore non ha dettato in proposito una norma rigida diretta a vincolare l’attività decisoria del giudice ma ha preferito delineare uno standard generico, delegandogli un potere discrezionale. E dato che non è possibile conoscere in anticipo i casi in cui il legislatore ha inteso sottrarre la liquidazione dei beni del debitore al sistema delle vendite telematiche e che simmetricamente non è possibile, quindi, stabilire a priori quando l’attività liquidatoria dei beni in esecuzione debba effettivamente essere sottoposta al regime delle vendite telematiche l’affermazione di un rapporto di regola-eccezione finisce col rivelarsi assai poco coerente con la struttura della norma.

([43]) R. CAPONI, La rimessione in termini nel processo civile, cit., 14.

[44] Così la Relazione al codice, cit.

[45] Su questi temi restano fondamentali le indicazioni di G. CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, 102-103. Che il sistema riconosca spazi più o meno larghi di incidenza dei poteri di autonomia delle parti private sullo svolgimento del processo non v’è, a mio avviso, bisogno di dimostrazioni:  oltre le singole disposizioni sparse nel codice che contemplano accordi e richieste di vario contenuto in grado di incidere sull’esercizio del potere giurisdizionale e vincolarlo, lo attestano alcune norme a vocazione più generale tra le quali almeno l’art. 177, comma 3, n. 1) c.p.c., richiamato per i processi di espropriazione dall’art. 487 c.p.c., ove si parla di “ordinanze pronunciate [dal giudice] sull’accordo delle parti in materia della quale queste possono disporre”; e l’art. 157, comma 2, c.p.c. il quale indica la presenza di norme processuali stabilite nell’interesse esclusivo della parte perciò sola legittimata a rilevarne la violazione. Un ostacolo all’elaborazione degli spazi di autonomia delle parti private non può essere rintracciato nella natura pubblicistica del diritto processuale. Così come nel campo del diritto privato, così anche in quello del diritto pubblico e, quindi, pure nel contesto del diritto processuale trovano, infatti, senz’altro collocazione norme cogenti e norme dispositive «secondoché richiedono d’essere necessariamente osservate nel caso concreto o pure dispongono solo pel caso che la volontà degli interessati non ne sia discostata». Così G. CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, 30-31, il quale insegnava che sebbene «ogni norma sia posta nell’interesse generale e abbia quindi in sé un elemento pubblico, tuttavia le norme sono diverse secondo il diverso rapporto in cui si trovano coll’interesse generale […]», aggiungendo che vi «sono norme assolute [i.e. cogenti] anche nel campo del diritto privato […] come nel campo del diritto pubblico vi sono norme meramente dispositive»; sempre nei Principi di diritto processuale civile 102-103 si trova altresì il rilievo che: «Volendo ricondurre la legge processuale civile in una delle due grandi partizioni del diritto può dirsi che essa appartiene al diritto pubblico, perché regola  più o meno immediatamente un’attività pubblica. Ma si deve riconoscere che essa è autonoma cioè ha una posizione speciale che deriva dall’intreccio continuo dell’interesse generale e dell’interesse individuale nel processo civile». Nello stesso senso, S. PUGLIATTI, Istituzioni di diritto civile, 1935, in Scritti giuridici, 2008, Vol. I (1927-1936), 443 (il quale osservava a proposito della distinzione tra diritto pubblico e diritto privato che «non mancano norme d’interesse privato nel campo del diritto pubblico, specialmente in quello del diritto processuale civile […] per gli stretti contatti che ha col diritto privato […] [del quale] risente in gran parte l’influsso [piegandosi] spesso ad esigenze che inclinano verso interessi individuali»);  S. SATTA, Accordo (dir. proc. civ.), Enc. Dir. [I, 1958]: «Particolare rilevanza ha l’accordo nel processo civile. In contrasto infatti con la tendenza generale della dottrina a considerare la norma processuale come norma di diritto pubblico, la volontà privata appare spesso determinante delle situazioni processuali: sia unilateralmente, quando, ad esempio, la legge subordina l’attività del giudice all'istanza di parte, o condiziona il prodursi di un determinato effetto all’attività di parte, casi tipici l'eccezione di incompetenza territoriale o il rilievo delle nullità (art. 157 c.p.c.), sia bilateralmente, quando appunto la legge riconosce a determinati accordi efficacia nel processo. La verità è che la norma processuale trascende tanto il diritto privato quanto il diritto pubblico: essa è norma di un giudizio, che non è per se stesso né privato né pubblico. Pubblica è al massimo grado la funzione giurisdizionale considerata in sé e per sé, ma privato è l’interesse che sta alla base stessa della giurisdizione, perché privato è il rapporto rispetto al quale essa in concreto si esercita. Di qui appunto l'antica intuizione che il processo sia atto di tre persone; intuizione assolutamente fondamentale, perché riconduce il giudizio anche alle parti e definisce la loro posizione nei confronti del giudice. Così si spiega come e perché la norma processuale tenga conto della volontà delle parti, e come renda questa addirittura determinante, se non è in contrasto con le finalità generali del processo». E nello stesso senso anche F. FERRARA sr., Trattato di diritto civile italiano, cit. 62 e 71 ss., F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, 1951, 81, S. PUGLIATTI, Diritto pubblico e diritto privato, Enc. Dir. [XII, 1964], N. COVIELLO, Manuale di diritto civile italiano, 1924, 12-13. S. SATTA, Trattatello di procedura civile, 1973, 204. Riprende l’insegnamento degli illustri maestri, S. LA CHINA, Norma giuridica (dir. proc. civ.), Enc. Dir., [XXVIII, 1978] il quale ammoniva alcuni anni or sono che: «Norma di diritto pubblico, dunque: tale è incontrovertibilmente la norma processuale civile; però, come sopra si accennava, proprio la nostra prospettiva processualistica seppur impone di approdare a questa conclusione non impone di fermarvisi. Vi sono cioè problemi che vanno al di là della classificazione, e che essa non risolve o su cui non dice alcunché di risolutivo; vi sono una serie di variazioni, se così possiamo esprimerci, in intensificazione o attenuazione, sul carattere pubblicistico della nostra normativa, che sono ben più interessanti della doverosa ma ovvia riaffermazione di esso; ed è su questa linea che il discorso può utilmente continuare. In questa prospettiva, vanno segnalati e meditati i dislivelli di valore giuridico, di efficacia e imperatività, tra norme e norme processuali […]. Vi è, manifestata da molti segni ed esplicite disposizioni positive, tutta una differenziazione tra norme processuali nel senso che, pur pubbliche tutte, con diversa intensità vanno rispettate e, se violate, con diversa forza sono sanzionate». Rileva come l’affermazione implicita nella dottrina processualcivilistica del XX secolo secondo cui «il carattere pubblico del diritto processuale civile precluda ogni deroga ad opera dei privati e comporti il divieto del c.d. processo convenzionale […] non appaia conforme alle evoluzioni dell’ordinamento» e che «le implicazioni sulla postulata natura inderogabile delle norme processuali siano fondate più su preconcetti che su puntuali riferimenti di diritto positivo», A. CHIZZINI, Konventionalprozess e poteri delle parti, Riv. dir. proc., 2015, 50 il quale osserva che «è difficilmente contestabile che norme dispositive si diano sia nel diritto privato sia nel diritto pubblico. Superato l’asserto dogmatico iniziale [della natura imperativa del diritto pubblico], appare evidente che l’analisi si sposta sul piano del diritto positivo e sulla necessità d’individuare quale spazio il singolo ordinamento processuale riconosce ai poteri dispositivi delle parti nella dinamica del processo».

[46] Non distante dal Chiovenda ci pare la posizione di E. REDENTI, Atti processuali (dir. proc. civ.), Enc. Dir.. [IV, 1959] quando scriveva che: «Ministro di giustizia in definitiva è sempre il giudice nell'esercizio delle sue attribuzioni istituzionali. Ma per il rispetto dovuto ai princìpi generali (preprocessuali) dell’ordinamento giuridico sulla disponibilità dei diritti e delle azioni individuali e sulla autonomia dispositiva dei soggetti che ne sono i titolari, nonché in conseguenza della limitazione (limitatezza) dei mezzi posti a disposizione del giudice stesso per la esplorazione dei fatti della vita e per la ricerca della verità, i poteri del giudice e le sue funzioni nel processo sono subordinati sotto vari aspetti alle iniziative delle parti e ai contributi che esse siano in grado di fornire». Per uno studio delle ragioni storiche delle inclinazioni autoritarie del processo civile e per una equilibrata ricostruzione dell’incidenza dell’autonomia privata sullo svolgimento del processo civile, nella più aggiornata dottrina processualistica, v. R. CAPONI, Autonomia privata e processo civile: gli accordi processuali, in Accordi di parte e processo, Quaderni della Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, 2008, 99 ss. a cui si deve l’argomento per cui se «si muove […] dal punto fermo del carattere strumentale del processo civile nei confronti dei diritti e dell’autonomia dei privati si può rovesciare l’impostazione attuale e ritenere che la disciplina del processo e dei suoi risultati possa aprirsi ad una fonte di regolamentazione negoziale, anche in via atipica ex art. 1322, comma 2, c.c., entro i limiti del rispetto delle norme imperative, dell’ordine pubblico e del buon costume, limiti che sono posti a presidio di un’allocazione proporzionata delle risorse statali rispetto al risultato di assicurare alla collettività un servizio efficiente di giustizia civile».

[47] F. FERRARA Sr., Trattato, cit. 62  ove il rilievo che “il riconoscere quando una norma è dispositiva o coattiva non è sempre facile, perché spesso il regolamento d’un unico rapporto contiene norme di vario ordine e si ha una combinazione di un intreccio fra di loro. L’antitesi fra diritto cogente e dispositivo […] non è coincidente con quella fra il diritto pubblico e privato, perché sebbene il diritto pubblico è in prevalenza di natura coercitiva, perché ivi preponderano interessi generali, mentre il diritto privato è posto ob singulorum utilatem, tuttavia vi sono norme di diritto pubblico (p. es. del diritto processuale) a cui è lecito alle parti derogare […] e viceversa il diritto privato abbonda di norme di carattere inderogabile […]. Né è sufficiente e sicuro criterio attenersi alla formulazione stilistica del precetto legislativo, la quale se talora può essere un indizio, non sempre può dare un affidamento sicuro sul valore della disposizione. Piuttosto bisogna risalire al fondamento del precetto, alla ratio iuris, se essa ha per scopo immediato la tutela d’un interesse generale […] si è in presenza d’una norma cogente perché l’interesse generale non può essere sacrificato dall’arbitrio del singolo, se invece si tratta di norme ispirate agli interessi individuali delle parti […] allora siamo sul terreno del diritto dispositivo. L’importanza pratica della distinzione riposa in ciò che le disposizioni e convenzioni che si oppongono o violano una norma di diritto cogente sono colpite da nullità […] mentre invece le determinazioni delle parti prevalgono ed escludono l’applicazione delle norme dispositive. Queste deviazioni non sono una deroga al diritto perché le parti agiscono così in quanto autorizzate dal diritto”.

([48]) Le proposizioni che compongono il  codice di procedura civile assumono il più delle volte la forma grammaticale delle proposizioni dichiarative. Tuttavia, in un significativo numero di casi, anche recenti (art. 490, comma 1, c.p.c.), le relative disposizioni sono rivestite della forma imperativa. Così negli artt. 29, 40, 47, 52, 54, 70, 83, 88, 94, 112, 113, 115, 116, 119, 125, 126, 129, 131, 132, 139, 140, 150, 157, 158, 160, 162, 163, 165, 166, 167, 168-bis, 169, 178, 185, 186-ter, 192, 195, 210, 211, 216, 218, 221, 223, 230, 231, 233, 237, 239, 241, 252, 260, 267, 269, 271, 275, 277, 297, 303, 305, 307, 340, 342, 347, 366, 369, 370, 371, 371-bis, 384, 390, 394, 474, 478, 479, 480, 490, 492, 495, 499, 504, 508, 517, 518, 520, 521, 521-bis, 525, 529, 536, 543, 546, 547, 550, 553, 555, 557, 560, 567, 569, 571, 582, 585, 589, 590-bis, 591-bis, 593, 595, 603, 604, 612, 613, 624-bis, 627, 636, 638, 639, 644, 645, 647, 648, 649, 658, 660, 661, 663, 669-quater, 669-octies, 669-decies. Se si può convenire che enunciati normativi cogenti possono essere espressi, a seconda delle circostanze e dei contesti, con diverse forme grammaticali e che possono perciò darsi senz’altro, in aggiunta alle proposizioni cogenti espresse in forma imperativa, anche norme cogenti dettate in forma dichiarativa non può però trascurarsi che nella maggior parte dei casi, anche se non sempre, l’ordinamento ricollega specifiche sanzioni giuridiche (invalidità, decadenze, inammissibilità, etc.) alla inosservanza di comandi espressi in forma imperativa (così l’art. 490, comma 1, e l’art. 631-bis c.p.c.), mentre non sempre annette, almeno esplicitamente, conseguenze giuridiche sfavorevoli alla trasgressione di proposizioni espresse in forma dichiarativa. Così come non può altresì trascurarsi che in sede di teoria generale del diritto è ormai da tempo acquisito che se nella maggior parte dei casi le norme giuridiche sono provviste di una sanzione «non c’è dubbio che vi siano in ogni ordinamento giuridico norme di cui nessuno saprebbe indicare quale sia la conseguenza spiacevole imputata in caso di violazione» per cui «il dire che la sanzione organizzata contraddistingue l’ordinamento giuridico da ogni altro tipo di ordinamento, non implica che tutte le norme di quel sistema siano sanzionate ma soltanto che lo siano la maggior parte». Sulla classificazione dei diversi tipi di proposizioni e sulla distinzione tra enunciati in forma dichiarativa e in forma imperativa, N. BOBBIO, Teoria generale del diritto, Torino, 1993, 50 ss.

[49] A questo riguardo, peraltro, non sarebbe sufficiente limitarsi, come si è ricordato, ad osservare genericamente che nel regolare le varie forme di espropriazione forzata il codice «più che a soddisfare gli interessi individuali, ha cercato di ispirarsi a quell’interesse collettivo, in cui essi devono equilibrarsi e comporsi in sintesi; l'ordinamento delle vendite giudiziali anziché a favorire l'interesse del creditore o quello contrapposto del debitore, deve sopra tutto tener presenti le supreme esigenze della pubblica economia, la quale, mentre da un lato considera la perfezione del meccanismi esecutivi come una garanzia del credito e come un motivo per accrescere la fiducia nelle contrattazioni, dall’altro non potrebbe tollerare un sistema di espropriazione che pur di arrivare a soddisfare il creditore disperdesse i beni espropriati e distruggesse i cespiti della ricchezza nazionale» (così la Relazione al codice, cit.). O che alla base dell’esecuzione forzata «sta un interesse pubblico il quale però si attua per mezzo della realizzazione di un interesse privato»  e che «il fine del processo esecutivo è di natura pubblica: attuazione di uno dei principi cardinali dell’ordine giuridico, quale quello di garantire la realizzazione dei diritti soggettivi e la prevalenza dell’interesse del creditore su quello (arbitrario ed illegittimo) del debitore riluttante» come scriveva autorevolmente S. PUGLIATTI, Esecuzione forzata e diritto sostanziale, cit., 928-929. E infatti come già notava esattamente N. COVIELLO, Manuale di diritto civile, cit. 11 ss. “pure interessando tutte le norme l’ordine pubblico [i.e. avendo qualsiasi norma giuridica lo scopo di soddisfare qualche interesse pubblico che ne giustifica l’esistenza], anche quelle meramente interpretative e suppletive, v’ha nondimeno alcuna che hanno applicazione incondizionata ed altre che trovano applicazione solo se il privato non abbia diversamente disposto del suo interesse […]. In ogni caso il criterio distintivo non si può desumere da note intrinseche alle norme stesse ma piuttosto da ciò che apparentemente […] sarebbe la conseguenza; cioè l’inderogabilità e la derogabilità per volontà del privato. Ma siccome tale criterio vien dato dal legislatore, tutto si riduce a ricercare la sua intenzione, la quale può risultare in modo espresso non solo, ma anche tacitamente dallo scopo a cui la norma provvede”.

[50] Esempi di vario tenore si trovano negli artt. 1, 6, 18, 19, 26-bis, 27, 28, 40, 44, 50-bis, 57, 72, 82, 91, 92, 101, 111, 113, 115, 116, 125, 130, 134, 135, 136, 142, 158, 160, 164, 170, 171, 176, 177, 183, 203, 208, 215, 229, 247, 268, 272, 279, 299, 300, 306, 307, 317, 329, 337, 338, 345, 375, 391, 394, 409, 410, 412-quater, 415, 417-bis, 419, 421, 424, 437, 475, 480, 487, 491, 492, 502, 514, 519, 530, 531, 534-ter, 540, 553, 559, 560, 569, 571, 579, 580, 584, 591-bis, 591-ter, 600, 609, 614-bis, 615, 623, 626, 635, 636, 647, 648, 669-quater, 669-octies, 669-novies, 669-decies, 669-duodecies, 732, 737, 739, 742, 743, 760, 761, 762, 768, 777, 783, 806, 814, 815, 816-septies, 817, 818, 819, 822, 824-bis, 830, 839, 840.

[51] F. FERRARA Sr., Trattato di diritto civile, cit., 63 ss.

[52] F. FERRARA Sr., Trattato di diritto civile, cit., 64. E’ pertanto inaccettabile la posizione di S. ROSSETTI, La pubblicità e la vendita telematica, cit., il quale addirittura sostiene che il legislatore avrebbe sottratto qualsiasi ‘discrezionalità’ al giudice dell’esecuzione in base alla considerazione che l’alternativa delle vendite telematiche in forma sincrona mista «esclude, anche solo in astratto, che le vendite telematiche possano di per sé costituire un ostacolo al fine del realizzo del miglior risultato e al sollecito svolgimento della procedura». A parte il rilievo che appare metodologicamente scorretto interpretare una norma di rango primario mercé il ricorso a norme di rango subordinato (la cui validità è appunto condizionata dalle norme superiori) e che il legislatore non ha affatto prefigurato in via diretta la possibilità di un sistema di vendite telematiche in forma mista e osservato pure che una volta eventualmente accolta l’opinione della natura cogente del regime delle aste telematiche a tutela di qualche interesse pubblico occorrerebbe interrogarsi molto seriamente sulla legittimità dell’atto regolamentare che, nel silenzio della legge, ha introdotto un modello ibrido di disciplina (ad es. se la funzione delle aste telematiche fosse da individuare nell’eliminazione dei rischi di interferenze illecite o nella ‘trasparenza’ assicurata dalle modalità on line), pare certo che la «clausola di salvezza» degli artt. 530 e 569 c.p.c. non possieda la struttura di una bright rule e assegni al giudice dell’esecuzione margini di discrezionalità quasi-legislativa. Non è privo di significato a questo riguardo il fatto che la disposizione poi frettolosamente introdotta con decreto legge nell’art. 569 c.p.c. era originariamente contenuta in un disegno di legge delega per la complessiva riforma del processo civile [art. 1-bis, lett. d) del disegno di legge C.2953 del 10-3-2016] e aveva, quindi, la funzione di prescrivere i criteri direttivi (art. 76 Cost.) a cui il legislatore delegato avrebbe dovuto attenersi nell’elaborazione della disciplina della vendita dei beni immobili con modalità telematiche. Tuttavia imponendo al legislatore delegato di «rendere obbligatoria» la vendita telematica immobiliare «salvo che [fosse] pregiudizievole per gli interessi dei creditori o per il sollecito svolgimento della procedura» il legislatore delegante mostrava chiaramente di non aver elaborato alcuna valutazione politica in ordine alla concreta utilità dello strumento per gli interessi dei creditori o alla sua effettiva idoneità a stimolare l’efficienza del processo e in ultima analisi demandava alla discrezionalità del legislatore delegato il compito di stabilire i margini di effettivo impiego delle aste telematiche. L’aver conferito all’autorità giudiziaria lo stesso margine di discrezionalità, originariamente pensato per il legislatore delegato, non fa che confermare, da un canto, lo spessore e l’ampiezza del potere discrezionale devoluto al giudice dell’esecuzione, dall’altro, l’assoluta centralità degli interessi indicati dalla norma nella ricostruzione del suo perimetro di applicazione. Il punto cruciale è quindi quello di accertare i modi di esercizio di questa discrezionalità nel contesto del rapporto giuridico processuale e i limiti in cui può esplicarsi nei confronti delle parti private

[53] L. MENGONI, Teoria delle clausole generali, Riv. crit. dir. priv., 1986, 5-19 e ora in Scritti, Metodo e Teoria giuridica, Milano, 2011, 165 ss.; S. RODOTÁ, Il tempo delle clausole generali, Riv. crit. dir. priv., 1987, 709 ss., ora riprodotto in Critica del diritto privato, Editoriali e saggi della Rivista Critica del Diritto Privato, Napoli, 2017, 131 ss. F. DENOZZA, La struttura dell’interpretazione, in Riv. trim dir. proc. civ., 1995, 34 ss.; si vedano altresì i contributi pubblicati in AA.VV., Principi e clausole generali nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico, a cura di G. D’Amico, Milano, 2017. Particolarmente significativa l’opinione di S. RODOTÁ, Il tempo delle clausole generali, cit., 137 ove il rilievo che l’impiego da parte del legislatore della tecnica delle norme elastiche «si conferma come una via più economica, che non garantisce soltanto, come da sempre si è detto, una apertura dell’ordinamento giuridico verso la società, ma pure la capacità di far fronte alle discontinuità che possono prodursi nel futuro […]» sulla base della constatazione che il futuro non è sempre prevedibile né dominabile (p. 136-137).

[54] S. RODOTÁ, Il tempo delle clausole generali, cit., 137 ove l’osservazione che l’impiego da parte del legislatore della tecnica delle norme elastiche «si conferma come una via più economica, che non garantisce soltanto, come da sempre si è detto, una apertura dell’ordinamento giuridico verso la società, ma pure la capacità di far fronte alle discontinuità che possono prodursi nel futuro […]» (p. 715) e il rilievo che la «fattispecie aperta […] ricorre quando si opera un esplicito trasferimento al giudice del potere di procedere ad un autonomo apprezzamento della situazione di fatto ed alla concretizzazione della norma secondo parametri desunti da modelli di comportamento o valutazioni sociali presenti nell’ambiente nel quale la decisione è destinata a produrre effetti. Qui non è tanto l’indeterminatezza del concetto ad assumere rilevanza quanto la sospensione del giudizio da parte del legislatore, la sua remissione ad una competenza diversa» (p. 145). Trascura completamente la struttura elastica della clausola di esenzione, la sua funzione e l’origine storica della disposizione, S. ROSSETTI, La pubblicità e la vendita telematica, cit., il quale osserva, invece, che «la valutazione dell’opportunità di procedere alle vendite telematiche è già stata compiuta una volta per tutte dal legislatore e anche se si deve condividere quella dottrina […] che ha messo in luce l’inopportunità di questo sistema, essendo il giudice dell’esecuzione (e non il legislatore) la persona che meglio può valutare, nel singolo caso concreto, l’opportunità di procedere alla vendita telematica, il dato normativo è indubbio e non può essere superato da una diversa valutazione del singolo giudice».

[55] Così A. CRIVELLI, Le vendite telematiche, cit.

[56] Un caso particolare di antieconomicità si trova nell’art. 107 l.f. ove si stabilisce che le procedure competitive di vendita dei beni del fallimento si svolgano sulla base di stime che devono sempre essere affidate a esperti “salvo il caso di beni di modesto valore”.

[57] Nel senso della prevalenza dell’interesse pubblico, G. BORRELLA- S. PITINARI, Questioni in tema di vendite telematiche, cit., i quali dopo avere affermato che «a rimettere la scelta al ceto creditorio o a fare dell’interesse di quest’ultimo l’unico faro ermeneutico, si rischierebbe seriamente di non dover disporre mai la vendita con modalità telematiche» poiché l’interesse dei creditori «è ovviamente di vendere prima e meglio ed è generalmente accettato che, quanto meno nella fase iniziale, la vendita con modalità telematiche potrà comportare una riduzione delle vendite», sostengono poi che «la ragione storica dell’introduzione di tale modalità di svolgimento delle operazioni di vendita è stata quella di evitare turbative e opacità delle vendite, assicurare trasparenza, in un ambiente tradizionalmente visto dal pubblico come inquinato, se non corrotto. Condizione indispensabile, quindi, perché il giudice possa decidere di non far luogo alla vendita telematica, è che si possa presumere che in nessun caso, per la tipologia del bene o del debitore o del contesto o dei potenziali interessati, possa risultare compromessa la trasparenza della procedura, qualunque siano gli interessi dei creditori o le esigenze di sollecita definizione».

 

[58] E infatti se il legislatore avesse valutato già in astratto la capacità del sistema delle vendite telematiche di rafforzare la competitività delle vendite giudiziarie, di accrescerne la trasparenza, di assicurarne la regolarità, etc. è evidente che il giudizio di compatibilità imposto dalla norma non avrebbe alcun senso, atteso che un sistema così congegnato, per sua stessa natura, sarebbe costantemente in grado di massimizzare gli interessi dei creditori: facilitando e allargando la partecipazione degli offerenti alle aste aumenterebbero la domanda di mercato e i relativi prezzi, garantendo la regolarità delle vendite pubbliche attraverso procedure anonime e spersonalizzate si rafforzerebbe la fiducia dei consumatori e quindi la platea di persone disponibili ad avvicinarsi alle vendite giudiziarie, si ridurrebbero così i tempi e i costi di reperimento dei compratori, la durata dei processi ne sarebbe positivamente influenzata e così via. Ed è questa in definitiva l’opinione che per lo più acriticamente ha finito per diffondersi tra i giudici dell’esecuzione (ad es. S. ROSSETTI, La pubblicità e la vendita telematica, cit. e G. BORRELLA- S. PITINARI, Questioni in tema di vendite telematiche, cit. ma in generale gli autori indicati nella nota 1). Sennonché la previsione che impone la necessità di un giudizio di compatibilità in concreto del modello delle vendite telematiche con gli interessi dei creditori sta senz’altro a dimostrare che l’adeguatezza di quel sistema rispetto alle esigenze della tutela esecutiva del credito, protette dall’art. 24 Cost., non è affatto un dato certo da cui il giudice possa acriticamente prender le mosse ma semmai è un risultato cui deve, volta per volta, in ogni singolo processo, pervenire.

[59] Così G. BORRELLA- S. PITINARI, Questioni in tema di vendite telematiche, cit..

[60] Incertezza attestata chiaramente dall’art. 22 del D.M. 26 febbraio 2015 n. 32, intitolato “Regolamento recante le regole tecniche e operative per lo svolgimento della vendita dei beni mobili e immobili con modalità telematiche nei casi previsti dal codice di procedura civile, ai sensi dell’articolo 161 -ter delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile” il quale, sia pure nell’ambito di una disciplina di rango solo secondario e con esclusivo riferimento alle vendite immobiliari, riconosce il modello dell’asta mista, consentendo che “l’offerta di acquisto e la domanda di partecipazione all’incanto possono essere presentate [con modalità telematiche] o su supporto analogico mediante deposito in cancelleria”. In questo caso, mentre coloro “che hanno formulato l’offerta o la domanda con modalità telematiche partecipano alle operazioni di vendita con le medesime modalità”; coloro “che hanno formulato l’offerta o la domanda su supporto analogico partecipano comparendo innanzi al giudice o al referente della procedura”.

[61] Con il conseguenza che il programma di liquidazione il curatore dovrà, dunque, sempre illustrare al comitato dei creditori la convenienza della scelta del sistema delle aste telematiche, motivando l’esercizio della sua discrezionalità sulla base dell’attitudine di tale soluzione liquidatoria a perseguire in concreto l’obiettivo della massimizzazione dell’interesse dei creditori (38 l.f.).

[62] Da questo punto di vista non persuade pienamente la pur elegante ricostruzione di S. LEUZZI, Vendite telematiche e procedure concorsuali, cit. allorché, sulla premessa che nella liquidazione fallimentare «non si tratta più di alienare celermente singoli beni […]» ma di valorizzare l’azienda nel suo complesso o comunque di procedere alla vendita di aggregazioni di beni e rapporti giuridici (art. 105 l.f.), ravvisa «una scelta di separatezza tra l’ambito fallimentare e quello espropriativo singolare che riconosce la specificità delle vendite che si celebrano nel primo rispetto a quelle che si effettuano nel secondo». A questa ricostruzione si deve obiettare da un lato che il regime delle vendite fallimentari delineato dall’art. 107 non è riservato alla vendita di complessi aziendali, rami d’azienda, beni o rapporti giuridici individuabili in blocco, ma è sicuramente applicabile anche alla «liquidazione di singoli beni» (così testualmente l’art. 105 l.f.), di modo che la differenza tra il regime dell’espropriazione singolare e quello dell’esecuzione collettiva non può fondarsi, al di là delle suggestioni, sulla diversa natura dell’oggetto della vendita. Dall’altro, che le forme della liquidazione fallimentare non costituiscono affatto una forma di liquidazione ‘speciale’ rispetto alle forme ‘generali’ dell’esecuzione singolare, ma semmai costituiscono l’espressione di principi generali di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza, cui deve uniformarsi anche l’interpretazione della disciplina dell’espropriazione forzata, come dimostra il richiamo dell’art. 107 l.f. in settori dell’esperienza giuridica diversi dalla liquidazione delle imprese commerciali e in particolare nell’ambiente dei procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento della l. n. 3 del 2012 (art. 14-novies), nonché nell’ambito della disciplina di liquidazione del pegno possessorio, dall’art. 1, comma 7, lett. a), del d.l. n. 59 del 2016 conv. nella l.  n. 119 del 2016).

[63] In questa prospettiva appare insostenibile la posizione di S. ROSSETTI, La pubblicità e le vendite telematiche, cit. il quale dopo avere affermato che il sistema delle vendite telematiche è «obbligatorio anche in sede di vendite concorsuali, allorquando il curatore prevedrà, nel programma di liquidazione, lo svolgimento delle vendite secondo quanto stabilito dal codice di procedura civile a norma dell’art. 107, co. 2, l.f.» afferma, riguardo alle procedure di vendita dell’art. 107, comma 1, l.f., che se «la riflessione si concentra sul concetto di trasparenza quale elemento implicito ed imprescindibile della competitività, si dovrebbe concludere che essendo le vendite telematiche, per ragioni logiche e normative, il paradigma delle vendite trasparenti – in quanto nella sostanza assicurano la segretezza dell’offerta e l’anonimato della gara – tale paradigma dovrebbe essere seguito dai curatori in sede di redazione del programma di liquidazione prima ed  effettuazione delle vendite poi».

[64] In altri termini, se l’obiettivo di «migliorare il tasso di efficienza e di trasparenza del mercato delle vendite forzate», come emerge dalla relazione illustrativa al d.l. n. 59 del 2016, ha sicuramente ispirato la modifica dell’art. 569 c.p.c., è altrettanto certo però che il legislatore non ha ritenuto che tale aspirazione potesse giustificare una compressione degli interessi dei creditori. Onde la scelta di condizionare l’applicazione della disciplina ad una verifica in concreto dell’idoneità del sistema delle vendite telematiche ad accrescere il rendimento e la rapidità dell’attività liquidatoria. La preminenza accordata alle ragioni dei creditori – si noti – non sta a significare che il legislatore abbia ritenuto le esigenze individuali dei privati prevalenti sugli obiettivi generali di efficienza e trasparenza delle vendite forzate bensì più semplicemente che l’efficienza e la trasparenza delle vendite forzate – mancando adeguati riscontri empirici in ordine all’effettiva utilità del sistema delle vendite telematiche – non possono essere considerati obiettivi astratti e antagonistici rispetto alla tutela dei diritti dei creditori ma si configurano, appunto, come valori essenzialmente strumentali alla tutela giurisdizionale degli interessi delle parti (art. 24 Cost.).

[65] Incorrono quindi in una evidente petizione di principio G. BORRELLA- S. PITINARI, Questioni in tema di vendite telematiche, cit. atteso che se la ‘trasparenza’ delle procedure si configurasse alla stregua di un valore in sé di rango superiore tutelato dalla disciplina delle aste telematiche «qualunque siano gli interessi dei creditori o le esigenze di sollecita definizione», il legislatore non avrebbe consentito alcuna ‘deroga’ al regime delle vendite telematiche disponendo sanzioni esplicite per la sua violazione, mentre proprio la prevalenza conferita all’interesse dei creditori rivela che in quella disciplina non vengono in gioco garanzie fondamentali del processo esecutivo.

[66] Così S. ZAMAGNI-L BRUNI-L. BECCHETTI, Microeconomia, Bologna, 2010, 64 e S. SCIARRELLI-R. VONA, Management della distribuzione, Torino, 2012, 79 ss. ove il rilievo che le funzioni essenziali assolte dal canale telematico sono per il consumatore quella di «superare le distanze e i confini geografici così da riuscire a ridurre fortemente i costi […] connessi agli spostamenti che il cliente deve compiere per raggiungere i punti di vendita sparsi per il territorio […], ottenere informazioni su prodotti e venditori […], superare i vincoli di orario dei negozi fisici […] [nonché] vagliare e confrontare più alternative in minor tempo e con minor costo […]». Dal lato dell’offerta di prodotti e servizi, invece, il canale elettronico permette di «dilatare i confini geografici della propria attività […], impostare politiche di one-to-one marketing […], collegarsi in modo più stretto e immediato con i consumatori», con l’avvertenza che i principali ostacoli per l’affermazione del commercio elettronico in alcuni mercati e la preferenza dei consumatori per le forme tradizionali di shopping sono legati in modo fondamentale sia ai livelli di alfabetizzazione tecnologica sia ad altri fattori tra cui è essenziale «la necessità di un contatto interpersonale, face-to-face con il venditore e di un contatto fisico, multisensoriale, con il prodotto (così da riuscire a ispezionarne al meglio le caratteristiche) che accelerano il processo di formazione della fiducia».

[67] Una recente indagine sullo sviluppo del commercio elettronico nel mercato europeo è pubblicata da Eurostat all’indirizzo http://ec.europa.eu/eurostat/statisticsexplained/index.php?title=File:Online_purchases,_EU28,_2017, ove sono indicate le principali categorie di beni acquistate on line dagli utenti internet e da cui si trae chiara la conferma dell’inesistenza di un commercio elettronico per beni diversi dalle commodities.

[68] Alcuni spunti in G. PICA, Commercio telematico, Dig. disc. priv., 2003, 271-272, il quale, con riguardo alla diffusione degli scambi digitali nei mercati dei beni tradizionali, osserva che «è lecito diffidare dell’eccesso di entusiasmo» perché «nella realtà, anche sul piano economico, i problemi di adattamento dell’organizzazione sociale al nuovo mercato sono tutt’altro che lievi, e non appaiono, per buona parte della produzione, risolvibili in tempi brevi, mentre per altre tipologie di consumi non appaiono affatto attuabili».

[69] Questi aspetti non paiono sufficientemente considerati da S. Rossetti, La pubblicità e le vendite telematiche, cit. e G. Borrella- S. Pitinari, Questioni in tema di vendite telematiche, cit.. Questi ultimi autori, muovendo dalla premessa che la disciplina delle aste telematiche sia allestita a presidio dell’interesse pubblico alla regolarità della fase liquidatoria, attraverso «l’anonimato e la spersonalizzazione assicurata dalla digitalizzazione del procedimento», giungono alla conclusione che il giudice potrebbe astenersi dal ricorso al modello delle vendite telematiche quando sia certo che «non venga compromessa la trasparenza della procedura». All’opinione di questi autori si può, tuttavia, replicare, in aggiunta alle osservazioni indicate nel testo, che (a) finisce per stravolgere impropriamente il «significato proprio delle parole» che compongono gli artt. 530 e 569 c.p.c. «secondo la connessione di esse» (art. 12 preleggi), atteso che nelle disposizioni citate non può evidentemente riconoscersi una norma che impone di avvalersi delle modalità telematiche “salvo che sia con sicurezza garantita la regolarità della procedura di vendita contro i rischi di turbative”; (b) è viziata da apriorismo l’affermazione che «non c’è esigenza di tutela dei creditori o della celerità della procedura che possa prevalere sulla salvaguardia comunque della finalità delle vendite telematiche, ossia la tutela della trasparenza [i.e. regolarità]» del procedimento liquidatorio, poiché, anche ammesso per ipotesi che la minimizzazione dei rischi di turbativa costituisca, insieme all’efficienza delle vendite, una delle esigenze implicitamente protette dalla disciplina delle aste telematiche, è certo che nessuno degli interessi immanenti al regime delle vendite telematiche può spingersi fino a compromettere gli interessi dei creditori e la sollecita definizione dell’esecuzione forzata come attesta inequivocabilmente la condizione contenuta negli artt. 530 e 569.

[70] Da questo punto di vista il modello tenuto presente dalla norma potrebbe quindi essere analogo a quello che risultava dal vecchio testo dell’art. 517 c.p.c. in tema di scelta delle cose da pignorare ove si indicava che il pignoramento, «quando non vi è pregiudizio per il creditore, deve essere eseguito preferibilmente sulle cose indicate dal debitore».

[71] F. CARNELUTTI,  Diritto e processo nella teoria delle obbligazioni, in Studi di diritto processuale in onore di G. Chiovenda, Padova, 1927, e ora in Diritto sostanziale e processo, Milano, 2006, 300 ss.

[72] F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, I, cit., 5, e C. MANDRIOLI, L’azione esecutiva, cit., 433.

[73] E. BETTI, Il concetto della obbligazione costruito dal punto di vista dell’azione, in Diritto sostanziale e processo, cit., 54 ove l’affermazione che «caratteristica del processo di esecuzione è la sostituzione dell’attività materiale degli organi dello Stato – o dello stesso  interessato a ciò autorizzato […] – all’attività dovuta […] dall’obbligato». Così anche S. SATTA, L’esecuzione forzata, cit., 47 il quale osservava che attraverso l’espropriazione «si tende a compiere gli stessi atti che il debitore avrebbe dovuto compiere per soddisfare il suo creditore: e cioè vendere i beni per pagare il debito col ricavato» e prima F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, I, cit., 26.

[74] Si intende con ciò, tra l’altro, sostenere che la scelta dei siti internet di cui all’art. 490, comma 2, e dei canali della pubblicità commerciale di cui all’art. 490, comma 3, la decisione in ordine al ricorso al modello della vendita telematica e la scelta del relativo gestore (artt. 530 e 569), nonché in generale le modalità di commercializzazione del bene possono essere governati interamente dagli accordi processuali dei creditori e che soltanto quando i creditori rimangano inerti nell’esercizio dei loro diritti di scelta o quando vi sia contrasto tra loro il giudice è abilitato ad intervenire sul procedimento di vendita mediante una determinazione autoritativa rimessa al suo equo apprezzamento. Fuori dalla sfera di competenza dei creditori resta esclusivamente il prezzo la cui determinazione, almeno in mancanza di accordo tra creditori e debitore, è affidata al professionista delegato sulla base della relazione di stima presentata da un esperto (artt. 1349 e 1473 c.c.). Ne emerge così un sistema in cui, da un lato, si garantisce la piena responsabilizzazione dei creditori che, sopportando i costi e i rischi dell’attività liquidatoria, non possono non essere attivamente coinvolti nella definizione del programma di liquidazione dei beni pignorati e delle iniziative dirette a massimizzarne il valore di realizzo; in cui, dall’altro, la tutela del debitore è realizzata attraverso una accurata determinazione del prezzo di vendita, onde al debitore devono essere necessariamente riservati (a) il potere processuale di influire ex ante sui criteri di determinazione del prezzo base fornendo gli elementi conoscitivi utili a individuare il valore di mercato del bene; (b) forme di reazione ex post rispetto all’evenienza in cui l’aggiudicazione del bene avvenga ad un prezzo ‘notevolmente inferiore a quello giusto’ (art. 572, comma 1, e 586); ferma, in ogni caso, la libertà del debitore di collaborare alla ricerca di potenziali compratori e di intraprendere azioni di marketing parallele (ad es. attraverso il conferimento di incarichi a intermediari specializzati, l’attivazione di canali di pubblicità ulteriori, etc.) a quelle che ad opera dei creditori si svolgono sotto il controllo del giudice. Un modello nel quale al giudice dell’esecuzione spettano, infine, compiti di controllo della legalità degli atti e delle scelte dei creditori nonché di risoluzione di conflitti tra le parti.

[75] B. CAPONI, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, 2017, 353 ove l’affermazione che «il recente legislatore, specie nell’espropriazione immobiliare […] ha incentivato la privatizzazione generalizzando il sistema della delega al professionista».

[76] Per lungo tempo confinata sullo sfondo dalla prassi per i vincoli di vigilanza prudenziale che ne frenavano l’impiego da parte delle banche, l’appropriazione diretta del bene in funzione della sua rivendita ad opera dei creditori, al pari del patto marciano, si appresta in futuro, con la rimozione di quei limiti ad opera della Banca d’Italia (Disposizioni di vigilanza, documento di consultazione, 16 marzo 2018, cit.), ad assumere un ruolo vieppiù centrale nel funzionamento delle attività liquidatorie dell’espropriazione forzata. Sull’istanza di assegnazione di recente, B. CAPONI, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, cit., 351 ss. e A. SOLDI,  Manuale dell’esecuzione, cit., 1434 ss. la quale pur giungendo in generale alla esatta conclusione che «il giudice non ha alcuna discrezionalità ed in presenza di una istanza di assegnazione del creditore deve accoglierla», ammette un’eccezione nella ipotesi dell’art. 572 c.p.c. là dove «in presenza di offerte inferiori al prezzo base, l’accoglimento dell’istanza ex art. 588 c.p.c. [sarebbe] parzialmente discrezionale perché resta subordinata al fatto che il giudice dell’esecuzione non reputi preferibile rinnovare l’esperimento di vendita». In realtà il senso dell’art. 572 c.p.c. è chiarissimo in senso opposto a quello indicato dall’autrice. In base al comma 2 di questa disposizione possono, infatti, darsi le seguenti alternative: (i) che non vi sia una seria possibilità di ottenere un prezzo migliore e che vi sia un’istanza di assegnazione; oppure (ii) che vi sia una seria possibilità di conseguire un prezzo migliore e non vi sia un’istanza di assegnazione; (iii) che vi sia una seria possibilità di conseguire un prezzo migliore e contestualmente vi sia anche un’istanza di assegnazione; (iv) che non vi sia un’istanza di assegnazione né la possibilità di conseguire un prezzo migliore. Ebbene, mentre nell’evenienza sub (ii) il giudice non può non promuovere un nuovo tentativo di vendita e nell’ipotesi sub (iv) deve accogliere l’offerta per un prezzo inferiore al prezzo base; nelle ipotesi sub (i) e (iii) il giudice deve assegnare il bene al creditore istante senza che possano configurarsi spazi di discrezionalità. Lo dimostra il comma 1 dell’art. 572 il quale impone al giudice di accogliere l’offerta del terzo pari al prezzo base fissato con l’ordinanza di vendita, negando qualunque margine di valutazione anche se vi sia la prospettiva in futuro di conseguire un prezzo migliore: se l’offerta del terzo di pagare il prezzo base preclude qualsiasi esercizio di discrezionalità non si vede, infatti, su quali basi dovrebbe giustificarsi il sindacato del giudice in presenza dell’istanza di assegnazione del creditore, anch’essa fatta per un importo non inferiore al prezzo fissato nell’ordinanza di vendita (ex art. 589 c.p.c.).

[77] Una visione riduttiva dell’istituto per la verità tramanda, sulla scorta della Relazione al codice, che l’amministrazione giudiziaria è diretta a sospendere la vendita in presenza di andamenti di mercato  penalizzanti, permettendo «ai creditori di trarre temporaneamente un beneficio dalla gestione del bene pignorato, e […] contemporaneamente […] evitare al debitore il pericolo che la vendita avvenga a condizioni per lui troppo sfavorevoli». Di qui lo scetticismo di chi scorgeva in questa possibilità una soluzione di ripiego «adottata dal Giudice in articulo mortis quando nessuno ha voluto comprare l’immobile» (così M.T. ZANZUCCHI, Diritto processuale civile, Del processo di esecuzione, III, Milano, 1946, 210). Ad una tradizione riduttiva si riportano in ultima analisi coloro i quali descrivono l’istituto come «un modo meramente eventuale e sussidiario di liquidazione al fine della realizzazione di denaro in base alle rendite dell’immobile» (M.T. ZANZUCCHI, Diritto processuale civile, cit.); o affermano che esso rappresenta «soltanto uno stato di quiescenza, entro certi limiti utile per i creditori, della procedura di espropriazione» (V. ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, Del processo di esecuzione, cit., 281) o lo additano come «un mero espediente per superare la paralisi dell'esecuzione e il danno contingente dei creditori, di fronte ad una situazione negativa in cui non sia possibile, o conveniente, l’alienazione o l’assegnazione dell'immobile, perpetuando il pignoramento e differendo il momento conclusivo dell'esecuzione» (R. PROVINCIALI, Amministrazione giudiziaria, Enc. dir., 1958, cit.). Così fino ai giorni nostri quando ancora si va ripetendo che l’amministrazione giudiziaria «costituisce una fase incidentale del procedimento di espropriazione, meramente eventuale e sussidiaria, che ha funzione di sospenderlo in presenza di una contingenza negativa in attesa di tempi in cui il mercato sia più favorevole», allo scopo di «mantenere il valore stimato dei beni e di evitare la diminuzione che ne comporterebbe il ricorso ad un nuovo incanto» (Cass. 26.12.2006, n. 27148; nello stesso senso di recente G. NONNO, sub art. 592-595 nel Codice commentato delle esecuzioni civili, a cura di G. Arieta, F. De Santis e A. Didone, 2017, 1430 ss, F. BARTOLINI, Esecuzioni immobiliari, Tra novità normative ed evoluzione giurisprudenziale, 2016, 445 ss., B. SCHEPIS in Processo di esecuzione, Profili sostanziali e processuali, a cura di A. Cardino, 2018, 969 ss.). Considerata la forza ancora esercitata dalla tradizione a proposito di questa figura non meraviglia l’opinione che «il disporre l'amministrazione giudiziaria costituisce un potere discrezionale devoluto al prudente arbitrio del giudice dell'esecuzione» (R. PROVINCIALI, Amministrazione giudiziaria, Enc. dir., 1958, cit.) e che ancora oggi si riferisca la massima giurisprudenziale secondo cui «la valutazione che viene compiuta [per avviare l’amministrazione giudiziaria] è autonoma ed integralmente discrezionale da parte del decidente, cioè prescinde dall’istanza del creditore procedente ovvero di qualsiasi altra parte del procedimento» (così, G. NONNO, sub art. 592-595 nel Codice commentato delle esecuzioni civili, cit., 1431). Nonostante le riflessioni dottrinali e giurisprudenziali tendano a relegarla ai margini, l’osservazione un poco meno approssimativa della disciplina contenuta negli artt. 591 e 592 ss. del codice indica chiaramente che la funzione pratica e le potenzialità teoriche della figura sono però assai più ampie di quelle suggerite dalle massime correnti. Al riguardo può anzitutto respingersi agevolmente il convincimento comune che con l’amministrazione giudiziaria il processo esecutivo resti «sospeso» o, comunque, che le attività liquidatorie si riducano in stato «quiescenza» con effetti assimilabili a quelli stabiliti dall’art. 626 c.p.c.. Posto che «durante» l’amministrazione giudiziaria «ognuno può fare offerta d’acquisto a norma degli artt. 571 e seguenti» (art. 592) e posto altresì che l’offerta di potenziali acquirenti nel codice, di regola, presuppone la preventiva fissazione delle condizioni economiche della vendita deve infatti ritenersi che l’attività liquidatoria del bene prosegua senz’altro nel corso dell’amministrazione senza alcuna interruzione. In secondo luogo, una volta notato che la formulazione di offerte da parte di terzi esige «l’incontro tra i due soggetti dello scambio» e che «questo incontro non è quasi mai fortuito» ma presuppone lo svolgimento di un’attività di promozione commerciale volta a sollecitare la domanda di mercato (F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, cit.), non può che ricavarsene, ad avviso di chi scrive, che tra gli obiettivi tenuti presenti dalla legge nel delineare lo schema della fattispecie rientra anche l’attività di ricerca di potenziali offerenti conformemente allo scopo liquidatorio del processo esecutivo. Se la custodia e l’amministrazione dei beni pignorati perseguono, non tanto e comunque non solo l’obiettivo di ‘realizzare denaro’ in tempi di crisi mediante il conseguimento delle rendite prodotte dal bene, ma piuttosto lo scopo di trovare compratori disponibili a presentare un’offerta, una volta sperimentato senza successo il tentativo di vendita del giudice dell’esecuzione, se ne può desumere poi che l’attività di promozione commerciale è destinata ad integrare un obbligo specifico dell’amministratore che questi deve adempiere per tutta la durata dell’incarico con la diligenza dovuta dal buon padre di famiglia (art. 67 c.p.c.) e la cui violazione può giustificare la sostituzione dell’amministratore o la revoca dell’amministrazione (art. 66 c.p.c.). In terzo luogo, diversamente da quanto si afferma comunemente, l’amministrazione giudiziaria non si configura affatto come un atto discrezionale del giudice dell’esecuzione ma è un atto dovuto su richiesta dei creditori a cui è attribuita, dopo l’insuccesso della prima asta, la scelta se continuare le vendite davanti all’autorità giudiziaria o, in alternativa, procedere ad un’autonoma attività di marketing dei beni pignorati, anche eventualmente per il tramite di un intermediario autorizzato o con la collaborazione del debitore. Lo attesta la formula dell’art. 591, comma 1, in base alla quale se non vi sono domande di assegnazione il giudice dell’esecuzione «dispone l’amministrazione giudiziaria» salvo che ritenga di poter conseguire attraverso la vendita con incanto «un prezzo superiore della metà rispetto al valore del bene determinato a norma dell’art. 568». Lo attesta altresì l’art. 592 il quale prevede che l’amministrazione giudiziaria «è disposta per un tempo non superiore a tre anni e affidata a uno o più creditori o a un istituto all’uopo autorizzato oppure allo stesso debitore se tutti i creditori vi consentono». Della disposizione possono in verità fornirsi due interpretazioni diverse: la più comune riferisce la necessità del consenso dei creditori esclusivamente all’eventualità che il giudice intenda conferire l’amministrazione al debitore; fuori da questa ipotesi il giudice resterebbe libero, quindi, sia di disporre o meno l’amministrazione giudiziaria sia di affidare autoritativamente l’incarico “a uno o più creditori” o “a un istituto autorizzato”. Per quanto accreditata questa interpretazione, tuttavia, non persuade. Viene in rilievo a tale proposito anzitutto l’art. 595, comma 1, c.p.c.: se «in ogni momento» il creditore pignorante o uno dei creditori intervenuti (ma non il debitore) possono chiedere che si proceda all’assegnazione o a nuovo incanto così da far cessare l’amministrazione giudiziaria dopo che il giudice l’ha  disposta, ciò implica che il giudice non possa prima di aver raccolto il consenso di tutti creditori ordinarne autoritativamente l’avvio o fissarne le modalità. In altri termini, se i singoli creditori possono provocare in qualunque istante la cessazione dell’amministrazione deve ammettersi che (a) l’efficacia nel tempo dell’ordinanza che la dispone è subordinata in ogni istante alla permanenza dell’assenso dei creditori; e quindi necessariamente che (b) la stessa pronuncia dell’ordinanza ad opera del giudice sia originariamente vincolata al consenso iniziale di tutti i creditori. Di qui la conferma di una lettura diversa e più convincente dell’art. 592, pienamente compatibile con il suo tenore, che predichi la necessità del consenso “di tutti i creditori” non solo per il  caso di conferimento dell’amministrazione a favore del debitore ma anche per la decisione del giudice di disporre l’amministrazione giudiziaria, per la definizione delle sue modalità e durata sia, infine, per la scelta della persona o delle persone cui conferire l’amministrazione. Questa ricostruzione non è, infine, contraddetta dall’art. 591, comma 2, c.p.c.. E’ vero che la disposizione attribuisce al giudice «altresì» il potere di «stabilire diverse condizioni di vendita e diverse forme di pubblicità, fissando un prezzo base inferiore al precedente nel limite di un quarto», in caso di insuccesso della prima asta, e tuttavia lo scopo della norma non è affatto quello di assegnare al giudice una facoltà di scelta discrezionale rispetto all’assegnazione o all’amministrazione giudiziaria del bene. Da un lato, la sua funzione appare, infatti, essenzialmente quella di autorizzare il giudice ad apportare riduzioni progressive del prezzo di vendita rispetto al valore di mercato stimato dall’esperto; dall’altro, il potere di fissare esperimenti di vendita a condizioni diverse si pone come un’alternativa praticabile esclusivamente al di fuori delle ipotesi delineate dal comma 1 e, quindi, soltanto nei casi in cui non sia chiesta l’assegnazione o l’amministrazione giudiziaria del bene.

[78] La tutela del debitore nell’attività liquidatoria è peraltro indirettamente assicurata dalla circostanza che gli interessi del creditore e del debitore risultano tendenzialmente allineati quando il valore stimato del bene è inferiore al valore del debito. In questo caso infatti creditore e debitore hanno interesse a ricavare quanto più possibile dalla vendita forzata il primo per soddisfare almeno parzialmente il proprio credito e il secondo per estinguere nella misura più alta possibile il proprio debito. Là dove invece il bene esprime una valore superiore al debito, l’interesse del creditore a massimizzare il valore del bene sul mercato è limitato alla somma di denaro sufficiente a ripagare il capitale, gli interessi e le spese mentre l’interesse del debitore è quello di conseguire anche l’eventuale surplus dopo aver estinto il proprio debito. In simili evenienze l’interesse del creditore e del debitore entrano in conflitto tra loro. Il creditore sarà sempre disponibile, pur di perfezionare la vendita coattiva, ad accettare il prezzo più basso che gli consente di essere soddisfatto integralmente e più rapidamente; il debitore sarà invece disponibile esclusivamente ad accettare offerte che gli garantiscano, oltre l’estinzione integrale del debito, anche il conseguimento del surplus. In una condizione di incertezza in ordine ai risultati conseguibili attraverso le diverse modalità di vendita la decisione del legislatore di distribuire in modo asimmetrico il potere di influire sulla determinazione delle strategie liquidatorie risponde al rilievo che la cura dell’interesse del debitore nell’esecuzione forzata è solo “secondaria e indiretta” (così S. Pugliatti, Teoria dei trasferimenti coattivi, in Scritti giuridici, 169); ciò sul presupposto essenziale che il debitore, in quanto titolare del bene, è sempre in grado di svolgere un’autonoma attività di commercializzazione in concorrenza con quella che si svolge nel processo esecutivo al fine di conseguire migliori condizioni di realizzo. Al fine di arginare pericolose forme di opportunismo dei creditori, nell’ipotesi in cui il valore del bene ecceda in modo apprezzabile l’ammontare del debito e non sia possibile operare una riduzione del pignoramento, sono perciò accordati al debitore sia il potere processuale di svolgere osservazioni e fornire elementi per la determinazione del prezzo, condizionando un elemento fondamentale delle condizioni di vendita del bene, sia adeguati strumenti di reazione per contestare l’eventuale ingiustizia del prezzo.

[79]Anche sulla base di statistiche come quelle pubblicate, ad esempio, da Eurostat http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=File:Online_purchases,_EU28,_2017.

[80] Secondo un principio che mi pare si possa ricavare anche da Cass., 22.6.2016, n. 12877.

[81] Uno spunto in questo senso anche in E. FABIANI, La vendita forzata telematica, cit., 66. Diversamente S. ROSSETTI, La pubblicità e le vendite telematiche, in Processo di Esecuzione, cit., 1606, ove si afferma che la possibilità di disporre gare telematiche in forma sincrona mista «esclude, anche solo in astratto, che le vendite telematiche possano di per sé costituire un ostacolo al fine del realizzo del miglior risultato». Il che può esser vero solo a condizione che il servizio sia completamente gratuito. Non può essere perciò condivisa l’opinione di G. FANTICINI, Le opposizioni nella vendita telematica, cit., il quale osserva invece che i costi ridotti da sostenere per l’utilizzo del sistema delle vendite telematiche dovrebbero giustificare una preferenza per questo modello liquidatorio perché «la partecipazione telematica – come la pubblicità sui quotidiani ex art. 490, comma 3, c.p.c. – consente di ampliare la platea dei potenziali acquirenti e, di conseguenza, non può essere fatto un miope calcolo di austerity sul ‘risparmio di spesa’». La formulazione degli artt. 530 e 569 c.p.c. dimostra, infatti, con sicurezza che lo stesso legislatore non ha affatto ritenuto immanente al sistema delle vendite telematiche un ampliamento della domanda di mercato dei beni pignorati. E questa valutazione, piaccia o non piaccia, il legislatore ha fatto con piena aderenza alla realtà, atteso che là dove non esiste in natura un mercato telematico in cui vengono scambiati ad es. beni immobili, la capacità delle relative piattaforme di offrire un apprezzabile vantaggio in termini di maggiore partecipazione dei potenziali acquirenti, non può darsi affatto per scontata. Analogamente deve dirsi a proposito dei beni mobili diversi dalle commodities per i quali non esiste un mercato reale delle aste telematiche (ad es. macchinari, brevetti, quote di s.r.l., etc.). Deve, pertanto, respingersi fermamente l’idea che il giudice, nonostante il contrario avviso dei creditori, possa arbitrariamente arrogarsi il potere di imporre una spesa che, per quanto modesta, risulterà con ogni probabilità del tutto superflua; tanto più in mancanza di tariffe o parametri che consentano in qualche maniera di predeterminare l’entità della prestazione patrimoniale imposta al cittadino (ex art. 23 Cost.).

[82] Così G. CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, 102.

[83] Così la Relazione al codice.

[84] Così F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, I, cit, 97-98, in riferimento al diritti del creditore di scegliere le cose da pignorare nell’ambito del pignoramento mobiliare.

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